“Cara Air Canada, perché nostro figlio è sulla no-fly list? Ogni volta che andiamo in aeroporto dobbiamo sopportare ore di controlli di sicurezza. Ha solo sei anni :)”. Con questo tweet – rilanciato da migliaia di utenti – è diventata pubblica la paradossale vicenda della famiglia Ahmed, regolarmente residente in Ontario, Canada.
Ogni volta che padre, madre e figlio vanno in aeroporto per prendere un volo, vengono isolati dagli altri passeggeri e sottoposti a infiniti controlli. Il padre – Suleyman Ahmed – pensava che fosse colpa di una sua omonimia con qualche sospetto terrorista. Ma, dopo infinite domande agli agenti della polizia di frontiera, è emerso che non è lui a comparire sulla lista nera, bensì suo figlio Adam, sei anni.
Il nome del bambino è segnalato come “possibile minaccia per la sicurezza” da quando Adam era in fasce. I genitori ne sono certi, perché i controlli “speciali” in aeroporto sono cominciati in occasione della partenza per una vacanza in Messico, quando il bambino aveva solo pochi mesi. Si sono poi ripetuti tante altre volte, fino a un viaggio negli Stati, pochi giorni fa. Il bambino, accompagnato dal padre, voleva andare a veder giocare la sua squadra del cuore a Boston ed è stato di nuovo bloccato per accertamenti all’imbarco. Suleiman Ahmed – esasperato – è riuscito a scattare una foto del computer della polizia di frontiera dove Adam era segnalato come minaccia, e l’ha twittata.
Il caso mette a nudo il trattamento arbitrario e umiliante che molti viaggiatori con un nome arabo o mediorientale subiscono solo perché omonimi di qualcuno che è stato segnalato. Nel caso di Adam, è chiaro che si tratta di un errore. Ma cosa succede se la stessa situazione è vissuta da un giovane o da un adulto?
Le inchieste giornalistiche seguite al caso di Adam hanno dimostrato che è quasi impossibile farsi rimuovere dalla lista nera. Finora i genitori del bambino non ci sono riusciti. La lista nera in Canada è segreta. Nessuno sa quanti e quali nomi ci siano, né le autorità lo possono rivelare.
La famiglia Ahmed, malgrado mesi di paziente insistenza, non sa neppure se il nome di Adam sia sulla lista nera canadese o su quella statunitense, da quanto tempo e perché. Solo dopo che il caso ha fatto scalpore, il ministro dell’Interno canadese ha promesso di informarsi sulla situazione del piccolo.
Nel frattempo altre famiglie sono venute allo scoperto: i genitori di Sebastian Khan (due anni) di Toronto e di Nassir Wavda (tre anni) dell’Ontario, hanno raccontato alla tv CBC di essere nella medesima situazione. A ogni viaggio devono aspettare pazientemente che la polizia di frontiera riceva dai piani alti la telefonata di via libera all’imbarco, mentre il “sospetto terrorista” dorme ignaro nel passeggino.
Di fatto ogni viaggiatore che ha il suo nome sulla lista nera deve dimostrare ogni volta la propra innocenza. L’onere della prova dunque non ricade sulle autorità, che dovrebbero dimostrare la “pericolosità” del passeggero, bensì sul cittadino, che deve provare di non essere una minaccia.
Intanto – a ogni viaggio – Suleiman e Khadija Ahmed cercano di proteggere Adam da tutta quell’attenzione dei poliziotti. “Non vogliamo che si senta preso di mira o diverso dagli altri”, hanno raccontato.