Sono medici, ingegneri, architetti, scienziati, economisti, letterati. Vengono dalle migliori università del Paese. Nel gennaio 2016, con una conferenza stampa, resero pubblico un appello dal nome “Non saremo parte di questo crimine” che chiedeva la fine delle operazioni militari dell’esercito turco nel sud est a maggioranza curda. In calce 1.128 firme, cui si aggiunsero quelle di alcune centinaia di accademici e ricercatori di altre parti del mondo, fra cui intellettuali come Noam Chomsky e David Harvey.
Da alcuni mesi il governo turco aveva strumentalmente interrotto la tregua con il PKK, formazione armata curda considerata di matrice terroristica; la pace non aveva funzionato elettoralmente, i curdi avevano preferito dare i voti a un partito filocurdo di opposizione anziché premiare l’AKP di Erdoğan, che di conseguenza aveva perso la maggioranza assoluta: meglio quindi ricorrere nuovamente al nazionalismo e alle ferite procurate da 35 anni di guerra civile per recuperare i voti perduti.
Gli accademici denunciavano le terribili conseguenze di questa scelta sulla popolazione curda: città assediate e distrutte, stragi, torture, definendolo un massacro deliberato e pianificato. Un’accusa a senso unico contro il governo che permise al presidente Erdoğan di scagliare contro di loro un’incriminazione quale quella di “sostegno a organizzazioni terroristiche”.
Quella che in fondo era una richiesta di pace diede il via a un’altra dichiarazione di guerra: nei giorni successivi alla diffusione dell’appello si verificarono alcune tra le scene più brutte a cui un paese che si suppone democratico possa assistere: forze di polizia negli atenei, professori prelevati all’alba dalle loro case davanti ai familiari, le porte dei loro uffici sigillate e in alcune casi vandalizzate.
Alcuni accademici furono arrestati, altri rilasciati, altri ricevettero semplicemente la lettera di licenziamento e il divieto di uscire dal paese. Carriere, e sopratutto vite, spezzate.
Per 158 di loro, tutti provenienti dall’Università di Istanbul, martedì ha avuto inizio la prima udienza del processo. Ognuno di loro sarà ascoltato a intervalli di 10 minuti, una maratona che andrà avanti fino ad aprile. Davanti alla sede del tribunale di Istanbul si sono radunate in presidio diverse centinaia di persone: gli accademici firmatari di altre città, i loro colleghi, i loro studenti; su alcuni cartelli retti da ragazzi giovanissimi si leggeva : “Non toccate i nostri professori”.
Gli avvocati hanno chiesto l’assoluzione e la non applicazione della legge antiterrorismo, rispetto alla quale gli accademici rischiano fino a sette anni e mezzo di carcere. Al momento tutte le richieste sono state rigettate e gli imputati ricompariranno davanti al giudice nella sessione successiva, che riprenderà ad aprile.