Luigi Manconi, presidente della onlus “A buon diritto” e da sempre in prima linea per la difesa dei diritti, è intervenuto a Radio Popolare per commentare i fatti della caserma di Piacenza posta sotto sequestro e anche dei reati commessi nel carcere di Torino.
L’intervista di Sara Milanese a Fino Alle Otto.
Cosa accomuna il caso di Piacenza a quello di Torino?
Innanzitutto il fatto che questi episodi si sono svolti in due cruciali strutture dello Stato, una caserma e un carcere, luoghi chiusi al cui interno operano e vivono a lungo, nel corso della giornata, operatori che coltivano una esistenza fatta di solidarietà virile, connivenza e complicità. Si sviluppa uno spirito di corpo che è proprio delle istituzioni totali, quelle che, destinate a esercitare il controllo sulla vita dei cittadini e dei cittadini reclusi, tendono a sviluppare pulsioni che possono diventare autoritarie, violente e dispotiche. L’attenzione va proprio concentrata su queste istituzioni totali, che devono essere sottoposte allo sguardo dei cittadini e delle istituzioni democratiche: devono diventare sempre più trasparenti, mentre la loro tendenza è ad essere sempre più opache. È dentro queste opacità che si sviluppano queste tendenze criminali che vengono coltivate da un fatto delicatissimo e terribile: questi operatori, poliziotti penitenziari o carabinieri o altri appartenenti ai corpi dello Stato, hanno la titolarità dell’uso legittimo della forza. Questo è il punto cruciale. Carabinieri, poliziotti e penitenziari hanno la disponibilità dell’uso legittimo della forza. La legge attribuisce loro la possibilità di esercitare la forza per controllare i cittadini. Da qui nasce la possibilità dell’abuso e quando questa possibilità non viene sottoposta a controlli e vincoli precisi, allora lì nascono la violenza, l’abuso e i reati.
Perché allora dobbiamo rifiutare la definizione di “mele marce”?
Per tre ragioni. Innanzitutto perché gli episodi sono tanti, sono davvero troppi e si susseguono. Noi conosciamo quelli che vengono alla luce e non sappiamo quanti rimangono occultati per anni. La seconda ragione è che, come insegna la logica ortofrutticola, poche mele marce possono infettare e far marcire l’intero contenuto del cestino dove le poche mele marce si trovano. Ed è quanto accade nella vita reale. Infine quelle poche mele marce, nei casi specifici a Piacenza e nel carcere a Torino, hanno incontrato una forte solidarietà da parte della catena di comando, da parte delle gerarchie fino a un livello medio-alto di comando. In un caso come nell’altro ci sono stati dirigenti e funzionari che hanno protetto questi atti di violenza e questi abusi. Non solo. Hanno costruito intorno agli autori di questi atti di violenza e di questi abusi una rete di omertà, di complicità e di connivenza.
A Piacenza è stata presa la decisione di sequestrare la caserma. È un modo per sottolineare la gravità di quanto accaduto.
Credo di sì. Credo che ci sia stata da parte della Procura un’intenzione pedagogica dettata dalle circostanze e voluta dall’esito delle indagini. Hanno voluto dire che è stata sequestrata quella caserma perché ormai non era più una struttura dello Stato con un suo compito preciso, ma era ormai stata ridotta ad una cellula criminale.
Come si fa a stimolare la produzione di questi anticorpi?
Dopo quanto è accaduto quello che sarebbe necessario è un discorso di verità. Il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri in passato, almeno in una circostanza, ha avuto parole di verità riconoscendo la gravità assoluta del comportamento degli appartenenti all’Arma che sono stati condannati per l’assassinio di Stefano Cucchi. Con questo precedente, e con tanti altri episodi accaduti, io mi augurerei che il generale Nistri facesse un discorso pubblico nel quale dicesse “la nostra Arma, quella che tutti i giorni esercita un’importante opera di vigilanza e tutela dei cittadini, quella che nella gran parte dei suoi uomini è fatta da persone oneste e corrette, ha commesso tanti abusi e tante violenze. Si è resa responsabile di tanti reati e di tanti soprusi nel corso della sua storia. Dobbiamo rovesciare completamente questo, che rischia di diventare un costume, e quindi da oggi si cambia totalmente stile di lavoro e si cambia totalmente la formazione degli appartenenti, si sviluppa all’interno dell’Arma dei Carabinieri un’attività di educazione alla legalità, di rispetto dei diritti umani, di osservanza dei dettati della Costituzione e allo stesso tempo si fa di questa Arma dei Carabinieri anche qualcosa che sia più intelligente nella sua attività, più attenta allo sviluppo di un ruolo che sia quello di tutelare i cittadini e non di intimidire”. Una vera e propria autocritica che non si possa limitare a Piacenza, ma che si eserciti nei confronti di tutto un costume e tutto uno stile di formazione, tutta una fisionomia dell’Arma dei Carabinieri. Temo, purtroppo, che questo discorso non verrà fatto.
Ci vuole molto coraggio nel fare un discorso di questo tipo.
Ci vuole coraggio perché i processi di democratizzazione all’interno dell’Arma dei Carabinieri o all’interno della Polizia Penitenziaria, o della Polizia di Stato o della Guardia di Finanza, sono stati avviati negli anni ’70 e poi si sono arrestati. Hanno fatto spesso passi indietro. Ci sono stati contraccolpi in controtendenza e fare questo ragionamento e sviluppare questa azione è faticosissimo e incontrerà comunque resistenze. Qui, però, c’è un altro ragionamento da fare: rispetto a questo processo di democratizzazione ineludibile e irrinunciabile, la classe politica non ha svolto in decenni e decenni di attività parlamentare alcun ruolo di incentivo. Ha lasciato che i corpi delle polizie rimanessero inalterati, non ha incentivato o agevolato i processi di democratizzazione e talvolta li ha addirittura ostacolati perché la classe politica, nella sua quasi totalità, soffre di una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei corpi dello Stato. Ne ha timore, li ritiene costitutivamente corpi separati e, nell’affermare il rispetto per gli stessi corpi, in realtà ne agevola le degenerazioni.