In sei anni di crisi siriana gli Stati Uniti sono sempre stati alla finestra. Si sono subito schierati con l’opposizione, nel 2013, dopo l’uso di armi chimiche da parte del regime, sono addirittura arrivati a minacciare un intervento diretto, ma alla fine si sono tenuti fuori da ogni coinvolgimento militare. Motivo principale, la memoria del disastro iracheno ai tempi di Bush. La scelta di Obama ha reso possibile l’intervento russo e la sopravvivenza del regime di Damasco.
In queste ore i media americani scrivono invece che nel nord della Siria sono arrivate centinaia di marines, con artiglieria pesante al seguito e con l’obbiettivo di garantire copertura alle forze locali che stanno avanzando verso Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. Non è chiaro se si tratti di una decisione dalla precedente amministrazione Obama oppure di una scelta di Donald Trump. La strategia siriana di Trump non dovrebbe essere radicalmente diversa da quella di Obama, quindi dovremmo essere sempre di fronte a un impegno relativo, ma un cambiamento, seppur modesto, ci sarà. L’arrivo dei marines nella regione di Raqqa sembra confermarlo.
Nel nord della Siria sono presenti già da alcuni mesi dei militari americani, con compiti di formazione, addestramento e reclutamento al servizio della lunga campagna per strappare Raqqa all’ISIS. Stanno appoggiando le Forze Democratiche Siriane, una coalizione guidata dalle milizie curde, le più efficienti contro lo Stato Islamico in tutti questi anni di guerra.
Il nord della Siria è un vero e proprio ginepraio, dove si scontrano gli interessi di quasi tutti gli attori di questa crisi. Nei giorni scorsi un contingente americano era già stato spedito nella città di Manbij, controllata dai curdi ma sotto il tiro dei ribelli siriani appoggiati dalla Turchia. Per dividere le due parti sono arrivati in zona anche esercito siriano e truppe russe. Sulla carta la Turchia è alleata degli Stati Uniti, ma considera i curdi siriani troppo vicini al PKK turco e quindi li classifica come terroristi. Ankara è intervenuta nel nord della Siria proprio per bloccare l’avanzata dei curdi e la creazione di una vasta regione autonoma a ridosso del suo confine.
Il Pentagono ha consegnato solo dieci giorni fa alla Casa Bianca un nuovo piano per combattere l’ISIS. Piano che prevede un maggior coinvolgimento delle truppe di terra e un maggior supporto alle milizie curde, con la garanzia a Erdogan che i curdi non entreranno a Raqqa. Washington ha anche mandato in Kuwait mille uomini pronti a intervenire in caso di necessità in Siria o in Iraq, tra Raqqa e Mosul.
I marines arrivati in territorio siriano in questi giorni confermano le intenzioni di Trump: un ruolo più attivo per gli Stati Uniti. Quale sia nello specifico questo ruolo più attivo rimane però ancora un mistero. La guerra ad alleanze variabili, una delle caratteristiche del conflitto siriano, rischia di far fallire anche la nuova strategia del Pentagono, seppur appoggiata dalla Casa Bianca.