“Un viaggio fatale per i bambini: la rotta migratoria del Mediterraneo centrale” è il nuovo rapporto Unicef (“Child Alert”). Un rapporto che fornisce un quadro accurato dei terribili rischi che i bambini, i ragazzi, le donne affrontano durante i pericolosi viaggi dall’Africa subsahariana alla Libia, fino alla traversata via mare per raggiungere l’Italia.
I tre quarti dei bambini rifugiati e migranti intervistati per una ricerca hanno raccontato di aver subito violenze, molestie o aggressioni per mano di adulti durante il viaggio, mentre circa la metà delle donne e dei bambini intervistati hanno dichiarato di aver subito abusi sessuali durante la migrazione – spesso, più volte e in diversi punti lungo il viaggio.
L’anno scorso, almeno 4.579 persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo dalla Libia, 1 su 40 di quelle che hanno tentato. È stato stimato che almeno 700 delle persone che hanno perso la vita erano bambini.
“La rotta del Mediterraneo Centrale, dal Nord Africa all’Europa, è tra quelle al mondo in cui muoiono più persone ed è tra le più pericolose per i bambini e le donne”, ha dichiarato Afshan Khan, coordinatore Speciale dell’Unicef in Europa. “La rotta è per la maggior parte controllata dai trafficanti e da altre persone che vedono come prede i bambini e le donne disperati che sono semplicemente alla ricerca di un rifugio o di una vita migliore”.
Queste alcune delle testimonianza raccolte dall’Unicef:
Kamis, bambina, 9 anni, nigeriana detenuta in Libia
“Ci picchiano ogni giorno”
“… Siamo stati trasferiti nel centro di detenzione di Sabrata (città della Libia nord occidentale, ndr), dove siamo rimasti per cinque mesi. Non c’era cibo né acqua. A Sabrata, ci picchiavano ogni giorno. Una bambina piccola era malata, ma non c’erano medici che potessero prendersi cura di lei. Era un posto molto triste. Non c’era niente. Ci picchiavano ogni giorno. Picchiano bambini e adulti. Una donna era incinta. Voleva far nascere il bambino. Quando il bambino è nato, non c’era acqua calda. Allora hanno usato acqua salata…”.
Aza, la madre di Kamis, detenuta in Libia
“Se devo morire io va bene, ma non i miei figli”
“Ho deciso di lasciare la Nigeria perché non c’era lavoro. Volevo lavorare e aiutare i miei figli. Non sapevo che il viaggio sarebbe stato così pericoloso. Non mi hanno detto la verità. Non mi hanno parlato dei rischi né delle difficoltà che avrei dovuto affrontare. Ma una volta imbarcati non potevamo tornare indietro. Ho pagato 1.400 dollari per quel viaggio. Ho fatto tutto questo per i miei figli e per il loro futuro, e non volevo perderli. Durante la traversata in mare, ho pensato: ‘Se devo morire io va bene, ma non loro’”.
Jon, ragazzo detenuto in Libia
“Io non volevo morire”
“In Nigeria c’è Boko Haram, c’è la morte. Io non volevo morire. Avevo paura. Il mio viaggio dalla Nigeria alla Libia è stato orribile e pericoloso. Soltanto Dio mi ha salvato nel deserto, senza cibo, acqua, niente. Il tizio che sedeva accanto a me durante il viaggio è morto. E quando muori nel deserto, si limitano a buttar via il tuo corpo. Sono qui [nel centro di detenzione] da sette mesi. Qui ci trattano come polli. Ci picchiano, non ci danno acqua e cibo decenti. Ci molestano. Molta gente sta morendo qui; muore per malattie, per assideramento”.
Pati, 16 anni, detenuto in Libia
“Senza acqua e cibo”
“Il viaggio è stato difficile perché abbiamo dovuto camminare, senza macchine, senz’acqua da bere. Abbiamo attraversato il deserto a piedi per quasi due settimane. Talvolta abbiamo dovuto camminare per una giornata intera senza poter bere e a volte siamo rimasti due giorni senz’acqua prima di arrivare in Libia. Senza acqua e senza cibo sufficienti”.
Issaa, 14 anni, detenuto in Libia
“Volevo attraversare il mare”
“Ho lasciato il Niger due anni e mezzo fa. Volevo attraversare il mare, cercare lavoro, lavorare sodo per guadagnare un po’ di soldi e aiutare i miei cinque fratelli rimasti a casa. Mio padre ha raccolto i soldi per il viaggio, mi ha augurato buona fortuna e mi ha lasciato andare”. Issaa è arrivato in Libia dal Niger da solo.
Will, 8 anni, nigeriano, detenuto in Libia
“Mio padre e mia madre sono morti entrambi”
“Volevamo andare in Italia. Eravamo su una barca. A un certo punto la barca ha cominciato ad allagarsi e poco dopo è affondata. Un bambino è sopravvissuto e io mi sono aggrappato a lui per molte ore. Mi ha salvato la vita. Ma mio padre e mia madre sono morti entrambi. Non li ho più rivisti”.
Bambino nel centro di detenzione di Abu Salim
“Bloccati in queste mura 24 ore al giorno”
Un bambino in una stanza presso il centro di detenzione di Abu Salim, a Tripoli, in Libia, dove 60 donne, 20 bambini e 115 uomini erano detenuti quando l’Unicef è andata in visita il 29 gennaio 2017. Le condizioni del centro sono povere, dozzine di persone sono ammassate in piccoli spazi su vecchi materassi. Dato che questo centro a Tripoli, per la sua posizione, è spesso visitato da giornalisti, le condizioni generali appaiono meno disperate rispetto ai centri all’interno del paese. Ciò nonostante i migranti sono bloccati tra queste mura almeno per 24 ore al giorno.
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Foto Unicef