Non andare al lavoro, non comprare niente, non accendere gli elettrodomestici. Rifiutarsi di fare il lavoro pagato e quello non pagato, quello di cura e domestico, quello che secondo la società è “compito delle donne”, e tuttavia non viene riconosciuto.
E per le persone che proprio non possono lasciare i loro compiti, perché precarie, ricattate, oppure sole a occuparsi di figli e anziani, un momento comune, alle 18, in cui affacciarsi alla finestra e sbattere le pentole. Svolgere le proprie attività indossando un drappo nero e viola, colori simbolo della protesta.
L’8 marzo sarà sciopero femminista, in Italia come in Argentina, Polonia e altri Paesi. Le forme di protesta saranno diverse quanto frammentato è il modo di lavorare nel 2017. In particolare per le donne, pagate di meno, con minore accesso al mercato del lavoro, più precarie e discriminate. A volte, invisibili.
L’assemblea nazionale di “Non una di meno”, riunita a Bologna sabato e domenica, ha proposto decine di manifestazioni in altrettante città, da Nord a Sud.
Si proverà a replicare, anche sul web e i social network, quell’ “invasione” delle aule della facoltà di Giurisprudenza che ha portato oltre 1.500 persone alla due giorni organizzata dalla rete dei centri antiviolenza D.i.r.e., di Udi e della rete Io decido, cui hanno aderito circa 400 tra gruppi e associazioni. Una partecipazione che attraversa le generazioni e gli orientamenti sessuali, con tante giovani al fianco delle femministe che hanno conquistato negli anni ’70 i diritti che oggi vengono messi in discussione.
Le ragioni per protestare non mancano: la violenza di genere, che colpisce non soltanto le donne ma anche coloro che non si uniformano ai rigidi ruoli codificati di maschile e femminile, persone gay, lesbiche, trans, queer, intersex; le discriminazioni; i tagli al welfare, che ricadono in gran parte sulle donne; le politiche di pressione sui corpi rispetto alle scelte riproduttive e di salute sessuale; la rappresentazione distorta e stereotipata sui media; l’opposizione ai progetti di educazione alle differenze; le politiche securitarie e di difesa dei confini, che calpestano i diritti delle migranti.
Tante le proposte arrivate dagli 8 tavoli che presenteranno a breve gli 8 punti per l’8 marzo: l’applicazione della Convenzione di Istanbul, un ottimo trattato internazionale contro le discriminazioni di genere rimasto in Italia sulla carta; il reddito minimo di autodeterminazione; l’abolizione dell’obiezione di coscienza nei presidi sanitari pubblici; i corsi di educazione alle differenze nelle scuole di ogni ordine; l’approvazione della legge sullo Ius soli; un osservatorio sulla correttezza dell’informazione e della pubblicità, per citarne solo alcune.
“I centri antiviolenza non si sentono più soli” – ha detto Anna Pramstrahler, della rete D.i.r.e. E l’incontro di Bologna ha rafforzato la sensazione di un movimento consapevole e politicamente maturo, che dopo aver portato in piazza 100.000 persone il 26 novembre 2016, ha la voglia e la capacità di portare a termine un progetto ambizioso come il Piano nazionale femminista contro la violenza, da presentare in alternativa a quello del governo. I prossimi passi, dopo lo sciopero dell’8 marzo, saranno dei nuovi incontri il 23 e 24 aprile.