L’ISIS è una delle variabili della crisi siriana. La guerra è destinata a finire con un qualche tipo di accordo tra il regime e una parte dell’opposizione. Il processo sarà lungo e tortuoso, ma gli ultimi successi militari di Assad e soprattutto il decisivo intervento russo hanno messo il conflitto siriano in un binario ben definito. Nelle prossime settimane si capirà qualcosa di più. I colloqui di Ginevra con la mediazione delle Nazioni Unite dovrebbero riprendere a fine febbraio.
Ma in tutto questo processo ci sono tante variabili, a partire dai diversi gruppi armati che sono stati esclusi da qualsiasi tipo di negoziato o di trattativa: Jabhat Fateh al-Sham (ex-Fronte Nusra), le milizie curde, l’ISIS.
Lo Stato Islamico rappresenta la variabile più pericolosa. Per due motivi: nonostante sia in ritirata controlla ancora una buona parte della Siria orientale, e a differenza di tutte le organizzazioni armate attive in Siria non ha alcun tipo di legame con gli altri attori di questa crisi. L’ISIS è isolato, l’unica strategia dei suoi nemici è quella militare. Non ci sono canali di dialogo. Questo è in parte comprensibile, ma allo stesso tempo è anche un grosso deficit, visto che in situazioni di questo tipo la soluzione militare non è mai sufficiente.
Nel 2016 lo Stato Islamico ha perso molto territorio. non solo in Siria, ma anche in Iraq. Al momento sono in corso due grosse campagne militari, una a Mosul, in Iraq, un’altra intorno a Raqqa, in Siria. L’esercito iracheno ha ultimato proprio in questi giorni la riconquista della parte orientale di Mosul. Nei quartieri occidentali, dall’altra parte del fiume Tigri, ci sono ancora 700/800mila persone, tra loro i miliziani dell’ISIS. La battaglia rischia di diventare impossibile.
Verso Raqqa, invece, si stanno muovendo le milizie curdo-arabe (Le Forze Democratiche Siriane) appoggiate dagli Stati Uniti. L’ISIS mantiene anche altre posizioni nel nord della Siria, fino alla provincia di Aleppo, come nel caso di al-Bab, che si contenderanno Turchia e regime siriano. Seppur ormai in continua ritirata lo Stato Islamico è poi riuscito a portare a termine alcune operazioni in altre zone del paese. Ha ripreso Palmira, sta difendendo Deir Ezzor (siamo nella zona centro-orientale del paese), si è spinto fino all’estremo sud, grazie ad alleanze con alcuni gruppi attivi vicino al confine giordano. Secondo alcuni Deir Ezzor potrebbe diventare la futura capitale dello Stato Islamico se dovesse cadere Raqqa.
Questo vuol dire che nel momento in cui bisognerà negoziare il futuro del paese ci saranno probabilmente diverse zone grigie, che non controllano né il regime né i ribelli. Con un evidente problema di sicurezza. C’è poi una questione politica: nell’ultimo anno il Califfato ha perso adepti e presa sulla popolazione locale. Molti sono fuggiti, molti si sono nascosti e non vogliono più avere nulla a che fare con l’ISIS. Ma allo stesso tempo chi sta dall’altra parte non ha mai offerto una valida alternativa. Nessuno quindi sa cosa succederà e chi governerà nelle zone liberate. Nel nord-ovest dell’Iraq, tutta la regione intorno a Mosul, ci sono per esempio tantissimi interessi, spesso contrapposti tra loro: governo di Baghdad, curdi iracheni, PKK, Turchia, solo per citare i principali.
Pochi giorni fa Donald Trump ha ordinato alle agenzie militari americane di preparare un nuovo piano per sconfiggere l’ISIS. I bombardamenti aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, così come quelli russi, sono stati importanti, ma allo stesso tempo avrebbero avuto bisogno di essere accompagnati da una coordinata azione di terra e da un preciso piano politico.
Lo Stato Islamico è quindi destinato a essere sconfitto militarmente sui fronti più importanti, Mosul e Raqqa. Ma le condizioni che hanno permesso la sua ascesa sono ancora lì. La variabile ISIS rimarrà, non solo in Siria ma anche in Iraq. Senza dimenticare il solito effetto emulazione nel resto del mondo.