Yes we can. Yes we did. Sì, possiamo. Sì, ce l’abbiamo fatta.
Così Barack Obama ha salutato il suo popolo, accorso al McCormick Center di Chicago per dirgli addio.
E’ stato un discorso in cui per una sola volta è stato citato il nome di Donald Trump, il suo successore; ma è stato un discorso in cui Obama ha messo in guardia contro le minacce che la democrazia americana correrà nei prossimi anni: spaccatura tra chi ha troppo e chi non ha; persistenza dei pregiudizi razziali – “sono stato indicato come il primo presidente dell’America post-razziale – ha detto Obama – non era vero, la race, la razza, continua a contare”.
E poi Obama ha lanciato l’allarme contro l’incapacità di guardare i fatti, la realtà, di seguire la scienza, ciò che sta mettendo a rischio il clima del pianeta. E infine, l’ultima minaccia, l’apatia, che rischia di allargarsi e che è la minaccia più potente e terribile ai principi democratici.
L’aspetto forse politicamente più forte del discorso è stato quando Obama ha collegato la questione delle divisioni razziali a quella delle diseguaglianze economiche e al senso di incertezza che molti americani provano. “La race rimane una forza potente e divisiva nella nostra società – ha spiegato Obama, legando la questione razziale a quella della giustizia sociale -. Devono cambiare i nostri cuori… Per i neri e per le altre minoranze si tratta di collegare i nostri sforzi per ottenere giustizia allo sforzo di tante altre persone in questo Paese – i rifugiati, i migranti, i poveri nelle zone rurali, la gente trasgender, ma anche l’uomo bianco di mezza età, che dall’esterno può essere percepito come colui che ottiene tutti i vantaggi ma che, anch’esso, vede il suo mondo travolto dal cambiamento economico, culturale e tecnologico”.
Riconosciuta la realtà della crisi – esistenziale ancor prima che economica e sociale – che ha condotto molti dell’America più profonda a votare per Donald Trump, Obama ha però rivendicato la necessità che questa stessa America faccia un profondo esame di coscienza. “Per i bianchi americani si tratta di riconoscere che gli effetti della schiavitù e del sistema Jim Crow non sono improvvisamente svaniti negli anni Sessanta; che quando le minoranze esprimono il loro scontento non stanno soltanto dando fiato a un razzismo al contrario o a una richiesta di correttezza politica; che quando protestano in modo pacifico, non stanno chiedendo un trattamento speciale, ma il trattamento egualitario che i nostri fondatori hanno promesso”.
Il momento forse più emozionante della serata, quello in cui lo stesso Obama si è commosso, è stato quando il presidente si è rivolto direttamente alla moglie. “Michelle LeVaughn Robinson, figlia del South Side di Chicago, sei stata non soltanto mia moglie e la madre dei miei figli. Sei stata la mia migliore amica. Hai assunto un ruolo che non hai chiesto e lo hai fatto con la grazia, il coraggio, lo stile, il buon umore che ti contraddistingue. Hai reso la Casa Bianca un posto che appartiene a tutti. E una nuova generazione mira più in alto, perché ha in te il suo modello. Mi hai reso pieno di orgoglio. Hai riempito di orgoglio questo Paese”.
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E’ stato un discorso che avrebbe dovuto essere, per molti democratici, un momento di gioia e nostalgia, per un presidente che lascia la propria eredità all’America. E’ stato invece un discorso intriso dei timori e delle incertezze che una buona parte d’America sente per il futuro.
Ma è stato anche un appello all’azione, un modo per affrontare i prossimi quattro anni con speranza e fede nel cambiamento. La democrazia ha bisogno di voi, ha detto Obama, “non soltanto quando c’è un’elezione, non soltanto quando è in gioco il vostro interesse particolare, ma per tutto il corso delle vostre vite… Se siete delusi per chi è stato eletto, per i vostri rappresentanti, raccogliete le firme, presentatevi alle elezioni. Scendete in strada. Perseverate. Certe volte vincerete. Altre perderete. In molti casi la vostra fede nell’America – e negli americani – verrà confermata”.
Come a dire, ritornando ancora alle parole slogan utilizzate da Obama nella campagna elettorale di otto anni fa, che la hope, la speranza, non basta. Il change, il cambiamento, c’è solo attraverso l’impegno.