Lo scontro per la leadership nel Partito Democratico si gioca sul piano della tattica.
Solo ieri i due candidati alla segreteria che rappresentano la sinistra del partito, Enrico Rossi e Roberto Speranza, si sono fatti fotografare assieme e hanno garantito che da qui in avanti saranno uniti nel fare al Governo richieste di cambiamento di rotta sul lavoro e la politica economica. Con loro c’era Michele Emiliano che candidato per il momento non è ma che potrebbe diventarlo. Un messaggio di unità politica come risposta all’ipotesi che Renzi volesse accelerare sui tempi del congresso, facendo leva sull’assenza di un candidato unico dei suoi avversari.
Renzi, all’assemblea nazionale, ha deciso di giocare un’altra partita. Congresso nei tempi previsti, quindi a 2017 inoltrato. Autocritica: “non abbiamo perso, abbiamo straperso al Sud, sui giovani, nelle periferie, sul web. È stato un mio errore“. E pacificazione: “il congresso sarà sulle idee, non sulle tessere o sulla resa dei conti”.
Nessun accenno alle politiche sul lavoro e Speranza, lasciando l’assemblea (non parlerà) lo sottolinea.
“Quando si perde si perde e si cerca di migliorare, non si cerca la rivincita” urla Renzi, che all’Hotel Ergife prova a iniziare una manovra per modificare la propria immagine di leader che non ascolta nessuno, avversari o alleati che siano. La parola d’ordine è coinvolgere tutte le componenti del partito. Fino a dire che la segreteria del partito dovrà essere più plurare, e avere maggiore solidità. “Da mercoledì si cambia”.
I portavoce renziani poi spiegheranno che lui non pensa a fare entrare le minoranze di sinistra nella segreteria, almeno non subito. Negli stessi istanti le minoranze rispondevano facendo sapere: “se ce lo chiede non entriamo. Non ci conviene. A parlare col Paese non ci deve andare la segreteria, ci dobbiamo andare tutti noi”.
Gli anti renziani hanno due paure: la prima è che Renzi tenti di “assorbire” la critica e il dissenso con una gestione diversa dallo stile decisionista tenuto fino a oggi. La seconda, legata alla prima, è che abbia deciso di fare il congresso dopo le elezioni politiche, dandosi al tempo stesso uno stile diverso, in modo da presentarsi alle primarie del centrosinistra da una posizione di forza, che depotenzi gli avversari.
Per questo ora, nel campo delle minoranze, sottovoce si ragiona: “un congresso nei termini statutari non ci conviene più, conviene anticipare”.
Quello su cui sono tutti d’accordo, oltre all’enunciato generico della necessità di ritornare a studiare, ad ascoltare il Paese, è la legge elettorale (con la sola eccezione, tra coloro che prendono la parola all’Ergife, di Francesco Boccia). Renzi propone il ritorno al Mattarellum e Nico Stumpo dice: “Se ci facessero votare un documento solo su questo lo approveremmo”.
A non lasciare tranquille le minoranze ci pensa Franceschini: “dobbiamo preoccuparci di noi, della sinistra che cerca il dialogo, e anche della sopravvivenza di un centrodestra europeo che un domani potrebbe essere un nostro interlocutore”.
La tregua, il dialogo, la “fase zen” come l’ha definita Renzi, non cancellano le linee di frattura interne.