È stata una campagna referendaria pessima.
Un tema importantissimo, una riforma che modifica in senso radicale le istituzioni, è passata in secondo piano nonostante tutti gli attori in campo affermassero di voler “stare nel merito”.
E invece è stata una battaglia strettamente politica.
Il primo responsabile è Renzi con la sua “personalizzazione” dello scontro. Lo ha fatto per trasformare il voto di domenica in un’investitura di se stesso. Per preparare le elezioni politiche future da una posizione di forza.
Ma anche i suoi avversari hanno deciso di sfruttare il No al referendum come pretesto per mandarlo a casa.
La Costituzione interessa poco o nulla alle destre. E anche tra le forze di sinistra ha prevalso il tentativo di regolare i conti con Renzi. Come se fosse una lotta, con scarse possibilità di successo reale, per l’egemonia sia dentro al Partito Democratico che nel campo della sinistra.
Hanno prevalso i toni populistici, la contesa da fine del mondo, giocata spesso sulla disinformazione o, come va di moda dire oggi, sulla post-verità. Populismo del fronte del No e populismo renziano, accentuato, quest’ultimo, dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti.
Ha prevalso la delegittimazione dell’avversario. I social network hanno avuto un peso importante ma, invece che contribuire al confronto, hanno amplificato il clima di contrapposizione senza margini di ricomposizione. In molti, a poche ore dal voto, iniziano ad affermare di non poterne più e si dicono disgustati dal livore dei social dove l’attività principale è stata quella del tentativo di distruzione dell’avversario.
Una corsa alla delegittimazione che lascerà i suoi strascichi dal 5 dicembre e che sarà un problema soprattuto nel campo del centro-sinistra.
Probabilmente lunedì resteranno due attori principali sulla scena: Renzi e Grillo. Nel mondo del centro-sinistra o di quel che ne rimane sono state poche le voci che hanno pensato al dopo, alle elezioni politiche, in vista di un dialogo e di una unità, prospettiva che in queste ore appare complicata.