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Batá, i tamburi sacri della santería

Girato all’Avana e terminato nel 2015, il documentario Santeros dell’etnomusicologo sardo Marco Lutzu – presentato nell’autunno dello scorso anno a Venezia nell’ambito della seconda Rassegna di Etnomusicologia Visuale, ospitata all’isola di San Giorgio dalla Fondazione Cini – mostra la presenza nella realtà di Cuba della santería, la religione afrocubana più diffusa nell’isola, seguendo e intervistando una giovane nera adepta del culto, e Alain, un giovane mulatto suonatore di batá, i tamburi impiegati nelle cerimonie della religione.

I batá sono tamburi con doppia pelle e fusto a clessidra asimmetrica che vengono suonati, tenendoli sdraiati sulle ginocchia, in combinazioni di tre strumenti di tre diverse dimensioni, chiamati, dal minore al maggiore, okónkolo, itótele e iyá. Considerati sacri, sono ritenuti la personificazione di Añá, divinità a cui i tamboreros devono essere consacrati: i percussionisti che suonano i batá in una cerimonia della santería, il toque de santo, devono far parte della casta sacerdotale degli Omo Añá, i “figli di Añá”. Tra i vari aspetti messi in rilievo nel documentario di Lutzu, anche il riguardo nei confronti dei tamburi batá, “consacrati” e trattati alla stregua di persone. Con complessi intrecci ritmico-timbrici, la combinazione di tre tamburi esegue le musiche liturgiche e accompagna i canti devozionali – a cui i fedeli partecipano in un meccanismo responsoriale – in lingua yoruba, arrivata con gli schiavi africani dall’area degli attuali Nigeria e Benin. In un crescendo percussivo, i batá favoriscono il raggiungimento della trance. Per i credenti lo stato di trance è quello attraverso il quale gli orichas – le divinità, i “santi”, dell’olimpo della santería – scendono sulla terra e si manifestano possedendo i fedeli.

Alain Medina
Alain Medina

Nei giorni scorsi Alain Medina Monteagudo è stato in Italia per presentare il repertorio liturgico della santería alla guida del gruppo Omo Abbilona, con cui all’Avana interviene nelle cerimonie. Giunto nel nostro paese grazie all’Istituto di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini, per il quale si è esibito giovedì 10 novembre nell’ambito del ciclo di concerti “Musica e rito”, Omo Abbilona si è poi esibito in alcune date in Sardegna e infine sabato 19 a Roma, per la associazione Aché nell’ambito del progetto Timbalaye.

Nel febbraio scorso abbiamo intervistato Alain Medina all’Avana.

Ci diamo appuntamento a Pogolotti, barrio che fa parte di un esteso e popolare municipio della città, Marianao, un’area abitata prevalentemente da neri e mulatti che è uno dei capisaldi dell’Avana “profonda”. All’inizio del Novecento Marianao conobbe un notevole sviluppo industriale, e il barrio di Pogolotti nacque nel 1911-12 grazie ad un investimento del governo Valdés Carrero, che finanziò la costruzione di 950 case per i lavoratori.

Il nome è italiano: l’appalto per l’edificazione del quartiere fu vinto da Dino Pogolotti, imprenditore della provincia di Torino. Oltre alle case a schiera, Pogolotti realizzò anche le opere di urbanizzazione, le strade, un cinema, un negozio di alimentari. Nella struttura urbanistica e nell’architettura delle case, con una nobiltà – per quanto oggi decaduta – da edilizia operaia, Pogolotti mantiene ancora adesso una sua inconfondibile fisionomia. Andiamo a casa della zia, una delle abitazioni costruite da Pogolotti, ad un unico piano terra: una casa modesta ma spaziosa, e molto ordinata. Nella stanza di ingresso, quasi vuota, oggetti della devozione della santería.

Cominciamo proprio da barrio…

Pogolotti è un barrio molto antico, il primo barrio operaio dell’Avana. E’ un barrio piuttosto religioso. Difficile che non ci sia almeno un babalawo (sacerdote della santería, ndr) per ogni isolato: in ogni isolato ci sono babalawo, santeros (fedeli della santería), paleros (fedeli di un altro culto afrocubano, il palo, ndr), adepti di diverse religioni. Ad un isolato da qui c’è un luogo di un’altra religione, che è un po’… come posso dire… problematica… e con la quale in qualche modo ho avuto a che fare: nel ’97 mi sono consacrato nella religione abakuá, però non era qualcosa che mi interessasse, e non ho poi continuato a partecipare. Questo è un barrio dove si fanno molti toques de santo, e questa invece è una cosa che mi piace molto: dove sento suono di tambor, lì mi ci trovo. Si fanno molti inviti, si invita a partecipare ai propri tambor: vado sempre per esempio da un amico che ho da quando eravamo bambini. Ma molti sono “amici” tra virgolette, sono un enigma: vedi la faccia ma mai il cuore. E quindi ci sono cose personali, importanti, per esempio cose che possono suscitare invidie, che uno si tiene per sé. Le cose sono cambiate molto: una volta c’era più rispetto, le amicizie erano più solide.

Come se arrivato alle religioni, e alle percussioni?

E’ stata come una catena: i miei antenati sono stati tutti religiosi, sono nato in una famiglia religiosa, e sono cresciuto vedendo questa religione nella mia casa. Si facevano dei toques de tambor, e già quando ero molto piccolo guardavo, vedevo come suonavano i tamburi batá. A dodici anni parlai con la mia mamma, perché convincesse un signore di una certa età, Gustavo (Gustavo Diaz, uno dei migliori tamboreros della vecchia generazione, ndr), che viveva a Pogolotti e era il padrone di un tamburo, a insegnarmi a suonare. Questo signore aveva già abbastanza gente nel suo gruppo, ma io insistetti con mia madre fino a che lo convinse, e quindi cominciò a darmi lezioni di tambores. Io più o meno avevo già una nozione di quello che era il toque classico, perché io ascoltavo molto: così quando cominciò a darmi lezioni vide che io facevo progressi anche senza che lui mi spiegasse le cose, e disse che avrei imparato molto rapidamente, e così è stato. Quello che volevo era di imparare a suonare il tamburo, e se per ascoltare e suonare c’era da andare fino a Guanabacoa (un’altra delle municipalità dell’Avana, in cui la santería è profondamente radicata), io andavo a Guanabacoa, non mi interessava la lontananza né le complicazioni per arrivarci, mi interessava solo di suonare il tambor.

E la religione abakuá?

E’ un po’ complicato da spiegare… Ero un ragazzo molto timido, un po’ pauroso, e allora mio padre deve aver pensato che inculcandomi quella religione… (la religione abakuá ha delle connotazioni molto virili, e i suoi adepti sono stati storicamente – e sono tutt’ora – guardati con un certo timore, ndr). Quando avevo dodici anni mi portò alla riunione che si fa mensilmente fra gli abakuá, mi presentò, mi diedero una carta in cui c’erano i vari requisiti che un uomo deve avere per diventare abakuá. Andavo alle riunioni, poi a diciassette anni sono stato chiamato sotto le armi, e mentre facevo il sevizio militare è venuto il momento e c’è stata la cerimonia in cui sono stato consacrato abakuá. Poi mio padre morì, io terminai il servizio militare, e dopo non ho più partecipato e mi sono introdotto nella santería. Nel 2006 ho preso il mio santo (il passaggio con cui il credente diventa santero, ndr), Obatalá. Mi ha fatto da madrina una zia. Mia madre è santera, mia zia è santera, da quaranta, forse cinquant’anni, non potevo non arrivarci anch’io, è qualcosa che si porta dentro.

Che relazione hai con gli orichas, e in particolare con il tuo santo?

Adoro il mio santo. Non è che sia fanatico. Anzi, io non sono fanatico, tempo addietro ero di quelli che hanno bisogno di vedere, per credere. Fino a quando ho preso la mano di Orula (“prendere la mano di Orula” è una cerimonia, Orula è l’oricha della divinazione, ndr), serve a sapere il tuo destino, a vedere chi sei realmente, e Orula mi diede un segno che parla di benessere materiale, di ricchezza, ma anche di infelicità nell’amore. Sì, perché tutto ha la sua parte buona ma anche la sua parte cattiva. Non credevo a questo che mi stavano dicendo. Non avevo nessun tipo di problema matrimoniale, tutto andava bene. Ma Orula parla di passato, di presente e di futuro. Passò qualche tempo, e i problemi con mia moglie iniziarono, aveva un altro uomo. E cominciai a credere a quello che mi stavano dicendo. Mi dicevano anche di benessere materiale, di possibili viaggi… Ma mi presi paura per la parola di Orula: tanto che decisi di abbandonare la religione. E pensai di diventare cristiano, perché mi venne un po’ di rigetto, io non ero mai andato in chiesa, però cominciai a sentire un rifiuto della santería, smisi di andare ai tambores, mi allontanai da quello che avevo sempre vissuto, perché avevo sempre vissuto il toque. Cominciai a rifiutare delle richieste di suonare, non avevo neanche i soldi per tagliarmi i capelli. Poi sono tornato indietro, e sono tornato ai tambores. Dovetti fare una serie di offerte ai santi perché che io li avessi rifiutati era stata una offesa, e sono ancora in debito con loro. Poi è passato del tempo, sono diventato babalawo, adesso adoro più che mai Orula. Orula può cambiare il segno, e lo ha cambiato. Adesso so che devo essere molto legato ai santi e non rifiutarne nessuno, perché fino ad ora loro veramente mi hanno dato tutto quello che ho voluto: o meglio, non tutto quello che volevo, ma fino ad ora mi hanno permesso di mantenermi lavorando, e un po’ per volta mi stanno dando di più…

Sbaglio o negli ultimi anni è entrata nella religione anche tanta gente che non ne era particolarmente coinvolta?

La religione in effetti è cresciuta parecchio. Ma molto dipende dagli stranieri: tanti vogliono essere introdotti nella santería, e al cubano conviene, perché li può far pagare di più. Così è aumentato l’aspetto commerciale. Per esempio la religione è cresciuta moltissimo in Messico, dove ci sono anche moltissimi tamburi batá: molti messicani che sono venuti qui hanno preso dei tamburi batá, li hanno fatti consacrare, e se li sono portati in Messico, dove ci sono un sacco di santeri, sia cubani che messicani. Nella santería ci sono anche molti bianchi, direi anzi che ormai in questa religione sono più della gente di colore. Per esempio conosco un babalawo bianco, che per via della religione viaggia anche molto, ha molti adepti stranieri: ed è uno che non credeva in questa religione. Ce ne sono molti come lui, di colore ma anche bianchi, che una volta non facevano parte di questo mondo, che si sono messi in questa religione, l’hanno studiata bene e adesso vivono di questo.

Come sono normalmente le tue giornate?

La stessa routine tutti i giorni. Ho casa in un altro barrio, alla Lisa. Mi sveglio presto, vengo qui a Pogolotti, nella casa di mia zia, saluto i miei santi. A volte vado a comprare da mangiare: carne, verdura, riso. Cucino, mi piace cucinare. Se non ho da lavorare con i tambores mi riposo leggendo Ifá (l’oracolo di Orula: in altri termini un complesso sistema di divinazione, ndr), perché un babalawo deve studiare molto. Non ho l’abitudine a studiare, ma quando non ho niente da fare ho qui delle informazioni di Ifá, e ogni giorno cerco di imparare qualcosa di più, perché Ifá è molto grande e c’è da studiare molto. Bisogna anche imparare a comunicare con la gente: ad una persona possono venire fuori dei segni molto problematici, per cui bisogna cercare il modo adatto per spiegarglielo e dirgli anche in che maniera può risolvere il suo problema. Non ho molto da raccontare sulla mia vita.

Fai molta pratica col tambor? Suoni al di fuori delle cerimonie?

No, non mi esercito. Ho fatto già molta pratica quando stavo imparando a suonare: ho imparato e quello che impari non lo perdi.

Quante cerimonie fai in media a settimana? E qui nel barrio o anche fuori?

Dipende: due, quattro, ci sono delle volte che lavoro tutta la settimana. Quasi sempre fuori del barrio: ieri sono andato a Santa Fé (nel municipio di Playa, ndr), oggi vado ad Habana del Este. A volte andiamo come gruppo, a volte chiamano anche me da solo, per completare una formazione.

Quanto venite pagati?

C’è il dinero de contrato, che nel nostro caso sono 1200 pesos (CUP, peso cubano nazionale, 1 euro circa 30 CUP; il salario medio corrisponde a circa 20 euro, ndr). Tu vieni a casa mia, mi chiedi se sono disponibile per un determinato giorno, io prendo nota, e stabiliamo la durata dell’impegno, per esempio dalle due alle sei del pomeriggio. Mi dai 1200 pesos, mi dai due frutti di cocco, che mettiamo lì ai santi… Avviso gli altri tamboreros, organizzo il trasporto, in modo da essere lì in tempo. Però alla cerimonia a casa tua ci saranno degli invitati, molti santeri, che sanno che ad un toque devono salutare i tamburi…

… E offrire dei soldi…

Ma c’è anche chi non ne ha ma in ogni caso deve salutare Añá, come si chiama il santo che sta dentro il tamburo. In quanto santeri devono salutare, che tengano o no denaro. Il denaro che viene offerto è qualcosa in più che dividiamo fra noi tamboreros.

Che tipo di situazioni si trovano alle cerimonie?

Non c’è sempre lo stesso tipo di ambiente, c’è di tutto. C’è gente educata, gentile, case dove c’è una bella atmosfera, cerimonie dove alla fine ci chiedono di trattenerci, per stare assieme, e c’è gente poco raccomandabile, persone maleducate, case dove ti passa la voglia di suonare: quindi devi saper convivere con tutto.

Nell’esecuzione del repertorio liturgico sono riconoscibili stili diversi?

Fra qui a Marianao e Centro Habana o il Cerro (altro municipi dell’Avana, ndr) ci sono delle maniere diverse di suonare. A volte cambia addirittura anche la sequenza in cui si succedono i ritmi (ognuno dei quali dedicato ad uno specifico oricha, ndr) che vengono suonati all’inizio della cerimonia. Sono stati aumentati molto dei colpi che suonano molto bene, che abbelliscono, ma che non sono toques de fundamento: qui a Marianao invece si suona con più cadenza, in un modo più de fundamento

Cioè con uno stile più legato alla maniera storica con cui venivano eseguiti questi repertori…

Esattamente. Senza voler criticare: sono anche amicizie mie, all’Avana (Alain intende in altri municipi come quelli citati, ndr), bravissime persone.

Potremmo dire che suonano in una maniera più spettacolare?

Sì, all’Avana suonano in maniera più veloce, più mossa, hanno incrementato molto i colpi, e improvvisano molto.

Tu non improvvisi molto?

No, io sono più basilare, più legato a quella base che nel suonare il tambor non può mancare, e agli specifici colpi de fundamento che portano l’equilibrio fra il tamburo più grande e il secondo: è quello che mi hanno insegnato. Certo posso attualizzarli un po’, se ho voglia, nell’improvvisazione, perché suona bene, ma mi piacciono di più i colpi più tradizionali.

Nella cerimonia chi suona ha anche una responsabilità rispetto alla trance, nel suscitare la trance così come poi anche nel controllarla e calmarla…

Per esempio quando una persona sta per essere montata dal santo, muovere molto i sonagli che corredano il tamburo aiuta parecchio a fare sì che lo spirito arrivi, che la cosa non si interrompa: scaccia le cattive influenze e permette che il santo riesca a possedere il corpo di questa persona.

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Secondo episodio: La guerra non è popolare. L’Europa si riarma con 800 miliardi. In questi anni aveva già raddoppiato la propria quota di spese militarti, soprattutto comprando dagli Stati Uniti. Lo faremo di più, visto che Trump disinvestirà dalla Nato e dall’Europa. E’ la “fine delle illusioni”, come dice Von der Leyen, di essere garantiti dalla pace, perché d’ora in poi bisognerà usare la forza. E intanto si educa la popolazione con manuali che dicono: “In caso di guerra…”. La propaganda è altissima perché non c’è nulla di più antipopolare e antidemocratico della guerra e la militarizzazione d’Europa è tutta sulle spalle dei suoi cittadini. Con Michele Paschetto di EMERGENCY vi racconteremo come in Afghanistan in più di venti anni di guerre le cure abbiamo svolto un ruolo straordinario di mediatore. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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