Quando si va al cinema a vedere un film di Marco Bellocchio non bisogna mai andarci prevenuti. E nemmeno cercando di immaginare come sarà. Il cinema del regista di I pugni in tasca è ogni volta una sorpresa e nello stesso tempo un’esperienza. Ogni suo film è sempre carico di simboli che toccano quasi ogni aspetto della vita, sia personale che pubblica, ed è raro restare impassibili o indifferenti alle immagini e ai messaggi che ci lancia.
Di fronte a un romanzo come Fai bei sogni di Massimo Gramellini, quindi ci si può aspettare di tutto. Un caso letterario che nel 2012 rimase in classifica per più di cento settimane, superando il milione di copie vendute; un libro gratificato dalla presenza settimanale dell’autore su Rai Tre e dagli editoriali su La Stampa. Ma anche un libro che ha commosso molta parte degli italiani, facendo scoprire ai lettori l’esperienza intima e drammatica di Gramellini che rimase orfano di madre a nove anni. Ma è anche un libro che nel mettere a nudo i sentimenti dell’autore, ha avuto un forte impatto in tutti coloro che hanno vissuto esperienze simili, quindi prima o poi tutti, portando a un processo di identificazione .
In questa storia, così italiana per gli anni in cui è ambientata, dai ’70 al 2000, Marco Bellocchio ha trovato pane per i suoi denti. Ne ha mantenuto la trama: tagliando dove c’era da accorciare e approfondendo laddove serviva, ma soprattutto ci ha messo il cinema. Un cinema che esplora il contesto storico, lo cerca e lo mette in evidenza. Che utilizza gli attori come testimoni, come portatori di significati. Significati che spaziano dalla vita alla morte, incontrando la malattia, scontrandosi con la religione e contornandosi di eventi politici e di attualità.
Il protagonista da adulto è interpretato da Valerio Mastandrea che trasporta su di sé, per poi esternarlo, il dolore della perdita, dell’abbandono e della ricostruzione di un’identità. Una ricerca di sé, che parte dall’infanzia, unendo ricordi colorati a un presente grigio e marrone scuro. “Una guarigione o un reale principio di cambiamento”, – lo definisce Bellocchio. Un percorso che incontra l’amore, per Elisa (Bérénice Bejo) la dottoressa che lo assiste durante gli attacchi di panico.
In questo film si ragiona sull’assenza, sul vuoto degli affetti, sull’incomprensione, sull’incapacità di comunicare la verità ai bambini, anche quando crescono. La sacra famiglia, dissacrata, un tema sempre presente nel cinema di Bellocchio.
Ascolta l’intervista a Marco Bellocchio e a Valerio Mastandrea