Martedì 8 novembre si vota per eleggere il 45° presidente degli Stati Uniti, che svolgerà il 58° mandato presidenziale.
Al voto 50 Stati + il District of Columbia (la capitale Washington), in un territorio che si estende su 6 fusi orari.
I primi seggi aprono sulla East Coast, a seconda degli Stati, tra le 6am e7am (Eastern Time), cioè tra le 12 e le 13 ora italiana.
Le urne chiudono in tutti gli Stati tra le 7pm e le 8pm, tranne in Iowa e North Dakota dove chiudono alle 9pm. Il che significa che i primi exit polls e proiezioni dagli Stati sulla costa atlantica arriveranno quando in Italia è l’una di notte di mercoledì 9 novembre.
A partire dalle 11pm (ET), le 5 del mattino in Italia, si potrà conoscere un numero sufficiente di risultati definitivi nei singoli Stati, tale da poter individuare con certezza il nome del nuovo presidente. Ogni momento è buono, ma se ci fossero diversi Stati “too close to call” (con un testa a testa all’ultimo voto), i tempi potrebbero allungarsi, anche di parecchie ore.
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Il sistema dei voti elettorali
Ogni Stato rappresenta un collegio elettorale maggioritario (le uniche due eccezioni sono Maine e Nebraska che hanno un sistema misto, basato anche sui “Congressional Districts”). A ogni Stato viene assegnato un numero di voti elettorali in proporzione al numero di abitanti e uguale al numero di parlamentari che esprime. I voti elettorali totali in palio sono 538. A un candidato ne servono 270 (la metà +1) per diventare presidente. Salvo le due eccezioni di Maine e Nebraska, il candidato che ottiene più consensi in uno Stato si prende tutti i voti elettorali di quello stesso Stato. In caso, raro ma non impossibile, di parità – 269 a 269 – sarà la Camera dei rappresentanti che si insedia a gennaio a votare a maggioranza il prossimo presidente.
Stati certi e Stati “probabili”
Per Donald Trump i collegi elettorali considerati sicuri o molto probabili sono 22, per un totale di 163 voti elettorali. Di questi fa parte anche lo Utah, Stato solidamente conservatore, che assegna 6 voti elettorali. Quest’anno però c’è un’incognita che si chiama Evan McMullin, un candidato indipendente che può mettere in difficoltà Trump, altrimenti destinato a una vittoria certa. McMullin ha lavorato per la Cia, poi per Goldman Sachs ed è stato iscritto al Partito repubblicano, ricoprendo anche incarichi pubblici. Ma soprattutto è di fede mormone, come la stragrande maggioranza degli abitanti dello Utah. Probabilmente non sarà lui a vincere (nessun candidato indipendente ha mai vinto in uno Stato dal 1968), ma può sottrarre voti, soprattutto tra i conservatori moderati, a Donald Trump. E comunque nulla è scontato.
Hillary Clinton sulla carta può contare su 252 voti elettorali da 16 Stati di tradizionale fede democratica, quindi sicuri, e da 6 Stati “likely Democrat”, cioè orientati con un certo margine di vantaggio verso il Partito democratico. Tra questi ultimi, oltre a Minnesota e New Mexico, sono da tenere d’occhio gli Stati dove i sondaggi più recenti indicano che quel margine resiste ma si è ridotto:
Pennsylvania: “La Pennsylvania è Philadelphia e Pittsburgh con l’Alabama in mezzo”. La frase fu attribuita anni fa a James Carville, un ex consigliere politico di Bill Clinton. In effetti, le due principali città votano democratico, le zone rurali e industriali nel mezzo – meno popolose – sono profondamente conservatrici: qui la prevalente popolazione bianca, working-class, disillusa e impoverita, costituisce la tipica base elettorale di Trump. La vera incognita è l’affluenza. Non è un caso quindi che Hillary Clinton abbia scelto di chiudere la sua campagna a Philadelphia con un grande evento con suo marito Bill, gli Obama e Bruce Springsteen.
Virginia: Obama è riuscito a conquistare lo Stato dopo dieci vittorie consecutive dei candidati repubblicani. I cambiamenti demografici dell’ultimo decennio fanno pendere la Virginia verso Hillary Clinton. È lo Stato del candidato vicepresidente democratico, Tim Kaine, che fu anche governatore.
Wisconsin: Ha votato per i democratici dal 1984. Ma la maggioranza bianca e working class del suo elettorato è il target su cui Trump ha puntato con grande investimento di denaro.
Colorado: La composizione demografica dello Stato è cambiata negli ultimi dieci anni: un abitante su cinque ha origini ispaniche, è aumentata la popolazione con un più alto grado di istruzione e più benestante, è cresciuta la presenza di donne nelle aree suburbane. Il Colorado ha votato Obama nel 2008 e nel 2012, dopo una lunga serie di vittorie repubblicane.
Gli Stati incerti
Restano da assegnare altri 123 voti elettorali dai collegi competitivi, (tra cui un “Congressional District” ciascuno, che vale un solo voto elettorale, per Nebraska e Maine). Saranno uno o più Stati tra questi a essere decisivi per il prossimo presidente:
Florida (29 voti elettorali): È il terzo Stato più importante per numero di voti elettorali. Ha una composizione demografica molto varia: 17% di abitanti over 65, 15% di afroamericani, 25% di origine ispanica, con una significativa presenza di cubani storicamente più vicini ai repubblicani. Nel 2008 e nel 2012 ha votato Obama. La situazione di oggi è quella che gli americani definiscono “Toss-Up”, cioè alla vigilia il nome del vincitore si può solo tirare a sorte.
North Carolina (15): dal 1980 fino al 2004 ha votato repubblicano. Obama ha vinto di misura nel 2008 ma ha perso nel 2012, l’unico “Swing State” che non è riuscito a mantenere. Toss-Up.
Georgia (16): Stato conservatore, l’ultima volta che ha scelto un candidato democratico fu nel 1992 con Bill Clinton. Quest’anno potrebbe profilarsi una competizione con margini più sottili del solito.
New Hampshire (4): Tutti i sondaggi hanno dato Hillary Clinton in vantaggio per gran parte della campagna elettorale, ma si segnala una ripresa di Trump nelle ultime settimane. Nel 2000 il New Hampshire scelse George W. Bush e quella fu l’ultima volta in cui vinse un candidato repubblicano.
Michigan (16): Anche il Michigan, patria dell’industria automobilistica, pareva destinato a una vittoria facile per Hillary Clinton. Ma la candidata sembra aver perso terreno negli ultimi giorni e Trump intravede la possibilità di un sorpasso. L’ultimo candidato repubblicano vincente fu George Bush padre nel 1988.
Ohio (18): Nessun repubblicano è mai diventato presidente senza prendersi l’Ohio. Dal 1964 questo Stato ha sempre premiato il candidato che ha conquistato la Casa bianca. Da qui il detto: “As goes Ohio so goes the nation”, dove va l’Ohio va la anche la nazione. Ma il suo elettorato – con una prevalenza di anziani, bianchi e con basso grado di istruzione – non è più un campione così rappresentativo della popolazione americana come in passato. Nel 2016 potrebbe votare Trump senza essere decisivo per la presidenza.
Iowa (6): L’unica volta, in anni recenti, in cui l’Iowa ha votato un candidato repubblicano è stato nel 2004 con George W. Bush. Bill Clinton e Barack Obama hanno vinto ogni volta che si sono presentati. Ma il declino economico ha segnato gli abitanti dell’Iowa e, in quello scontento, Donald Trump ha trovato terreno fertile.
Arizona (11): Nonostante la crescente popolazione ispanica, l’Arizona dal 1996 ha sempre votato per il candidato repubblicano. L’elettorato quest’anno potrebbe essere meno compatto rispetto al passato.
Nevada (6): È lo Stato che rispecchia l’alternanza che si è registrata a livello nazionale: Bill Clinton-George W. Bush-Barack Obama. Dal 1980 ha sempre votato per chi è diventato presidente. Per gli investimenti e i posti di lavoro creati nei casinò di Las Vegas, Trump gode di una certa popolarità. Ma i suoi ripetuti insulti a donne e ispanici hanno fatto registrare una ripresa di Hillary Clinton. Toss-Up.
Qui le mappe con i risultati di tutte le elezioni presidenziali del passato.
Le altre competizioni elettorali
Tutta l’attenzione è concentrata, soprattutto all’estero, sul duello Trump-Clinton per la presidenza ma l’8 novembre si vota anche per alcune consultazioni locali (legalizzazione della marijuana, possesso di armi, finanziamenti alla scuola pubblica, per esempio), per il rinnovo di 12 governatori statali e di gran parte del Congresso. Le elezioni di Camera e Senato non sono meno importanti perché andranno a definire la maggioranza nei due rami del parlamento, con cui il presidente dovrà continuamente confrontarsi.
Attualmente i repubblicani controllano il Senato. Martedì si vota per il rinnovo di 34 senatori su 100. Per conquistare la maggioranza, i democratici devono strappare quattro seggi ai repubblicani se Hillary Clinton viene eletta presidente, poiché il suo vice diventa presidente del Senato e in caso di parità (50-50) il suo voto diventa determinante. Se invece Donald Trump va alla Casa bianca, i seggi da conquistare per una maggioranza democratica sono 5.
La Camera dei Rappresentanti viene rinnovata completamente, per un totale di 435 deputati. I repubblicani controllano anche questo ramo del Congresso dalle elezioni di metà mandato del 2010. La legislatura uscente vede 247 repubblicani e 188 democratici. Questo significa che i democratici dovrebbero strappare agli avversari almeno 30 seggi. Un’impresa non facile ma nemmeno impossibile.