
L’intervista a Luciana Castellina, storica voce della sinistra italiana tra PCI e Manifesto, in onda nello speciale “Una mattina mi son svegliato”.
Innanzitutto, partiamo dai fatti di questi giorni. Il governo ha chiesto “sobrietà” per il 25 aprile, e già in alcune località si è deciso per celebrazioni in tono minore. Secondo lei, che segnale è questo?
Bisognerebbe prima capire che cosa intendono, loro, per “sobrietà”. Per ora sembra che si cerchi di impedire le manifestazioni. Quindi, se per “sobrietà” si intende questo… figuriamoci. Io credo che oggi la cosa più importante sia far comprendere cosa sia stata davvero la Resistenza. Teniamo conto che ci troviamo davanti a una generazione molto lontana da quel periodo storico, e non sono sicura che sappiano davvero cosa sia stata la Resistenza italiana.
Insisto sempre sull’importanza di spiegare ai giovani che la nostra Resistenza è stata molto diversa rispetto a quella nel resto d’Europa. Altrove, i giovani che combatterono per la Resistenza lo fecero con alle spalle la legittimazione di uno Stato democratico. In Italia il fascismo è durato vent’anni — non dieci, come in Germania — e chi si univa alla lotta partigiana lo faceva senza neppure sapere cosa ci fosse stato prima. Andarono in montagna a combattere inventandosi un mondo che non conoscevano, non per recuperare qualcosa che esisteva già.
C’è stata una sfida straordinaria, una fantasia, un coraggio, una capacità di immaginare un mondo nuovo che è stata straordinaria. Io vorrei che i giovani capissero proprio questo: che anche oggi, pur non essendoci — per fortuna — un’occupazione, c’è bisogno di reinventare il mondo con lo stesso coraggio.
Perché, Castellina, è così difficile spiegarlo a chi quegli anni non li ha vissuti? Sono passati 80 anni. Perché è così complicato far passare questo messaggio, oggi? Lei vede questa difficoltà?
Sì, la vedo. I giovani spesso non riescono a comprendere nemmeno cosa è successo. Due cose fondamentali sulla Resistenza. E io credo che bisognerebbe insistere molto di più su come la si ricorda.
Forse si è dato troppo rilievo all’aspetto militare della Resistenza.
Invece, c’è un elemento straordinario, molto tipico della Resistenza italiana, che è ben sintetizzato dalle parole di un grande storico — che fu anche uno dei capi delle Brigate Garibaldi più importanti della Lunigiana — Roberto Battaglia. Battaglia parlava della società partigiana: non solo un aspetto militare, ma un’intera società che, in quei due anni, è cambiata attraverso la lotta.
Donne, bambini, anziani, l’intera popolazione si è emancipata. C’è un bel film, quello di Diritti, che lo racconta bene: la Resistenza non è stata solo un fatto militare.
Sono stati due anni in cui tutti gli italiani hanno riscoperto la soggettività, il protagonismo; si sono sentiti direttamente responsabili di ciò che accadeva. Questo ha reso possibile, dopo, la Costituzione e il salto democratico di un popolo che non conosceva affatto la democrazia. Noi non avevamo alle spalle monarchie costituzionali, come altrove in Europa. Non avevamo niente.
Uno dei grandi temi di ogni anno è: “Come attualizzare il 25 aprile?” Dal momento che non fu solo una liberazione militare, ma un’emancipazione complessiva della società, secondo lei qual è la “cifra” del 25 aprile oggi? In che cosa la nostra società dovrebbe emanciparsi per tradurre quei valori nell’oggi?
Credo che oggi la situazione sia drammatica, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. In Italia, in particolare, stiamo vivendo una crisi profonda della democrazia.
Non dimentichiamoci che il 70% dei giovani non va nemmeno a votare. C’è una sfiducia nella democrazia che, purtroppo, è comprensibile: le istituzioni hanno perso legittimazione, anche perché non si sa più dove sia il potere.
Una volta il potere era in un palazzo. Poi sembrava risiedesse nei parlamenti nazionali. Oggi è nel mercato, un mercato incontrollato. Le decisioni importanti sono privatizzate. I giovani devono recuperare la democrazia.
Per farlo, credo che sia fondamentale ripartire dai territori, costruendo nuove forme di democrazia organizzata che restituiscano protagonismo e soggettività ai giovani.
Non può funzionare solo la replica dei parlamenti — in cui i giovani non si sentono protagonisti. Mi ha addolorato molto la morte del Papa, perché lui questo l’aveva capito benissimo. C’è una frase bellissima in cui dice: “Non serve una politica per i poveri, serve una politica dei poveri.”
Ecco, oggi non serve una politica che venga da chissà dove: serve che i giovani si sentano soggetti attivi, artefici dell’invenzione di nuove forme di democrazia. Bisogna partire dal basso. Ci sarebbero tante cose da fare, ma se non ricominciamo a ricostruire nei quartieri e nelle città iniziative che restituiscano ai giovani il senso di essere protagonisti e di prendere decisioni, allora la democrazia sarà perduta.
Mi viene un po’ da ridere quando vedo, il lunedì sera su La7, i sondaggi: lo 0,0001% in più o in meno a un partito, e per una settimana intera tutti i media parlano solo di quello… Intanto, il 70% dei giovani non va a votare. E lo dicono chiaramente: “Il Parlamento non mi interessa.”
Se non restituiamo ai giovani la soggettività politica, la possibilità di essere protagonisti, la situazione si fa davvero rischiosa. E temo che su questo si stia facendo troppo poco.
Abbiamo avuto ospiti Pierluigi Bersani e Maurizio Landini, entrambi hanno detto: “Il 25 aprile non sia solo commemorazione, ma militanza. Basta lamentarsi della destra: è il momento del fare.” Anche per lei la militanza è questo?
Esattamente. Nuove forme che nascano dal territorio, che permettano alla società di riprendersi la gestione concreta di pezzi della propria realtà. Bisogna superare questo affidamento cieco alle istituzioni, che ormai non funziona più.
Un tempo c’erano grandi partiti, che fungevano da veicoli verso le istituzioni. Oggi tutto questo non esiste più. E poi, tutto è spezzettato, frammentato, in un sistema di comunicazione che è quello che è…
Bisogna riprendere in mano il potere decisionale. E c’è tantissimo da fare.
Io, però, sono ottimista: vedo che in tanti quartieri, soprattutto nelle periferie, si stanno costruendo esperienze interessanti. Comitati, gruppi che si sentono responsabili di ciò che accade nel proprio territorio. E agiscono.
Si parla anche di democrazia diretta. Ci si prende cura della propria zona. Si comincia da lì.
Questo è il punto chiave. È quello che è stata la Resistenza: la presa di responsabilità per inventare un nuovo mondo. Ora tocca a noi farlo. Il mondo attuale fa paura. Dobbiamo reinventarlo.
Una sfida difficile, se pensiamo che viviamo in una società dell’individualismo sfrenato. Secondo lei, Castellina, si può rovesciare questo paradigma?
È difficile, ma necessario. E significa anche spiegare meglio che cos’è stato e cos’è, davvero, il fascismo. Non so quanto oggi si riesca a farlo.
Il fascismo è stato soprattutto il tentativo di distruggere ogni soggettività, ogni forma di partecipazione. Questa è stata la cosa principale.
Togliatti ebbe un grande merito, già nel ’44, a Salerno, quando parlò ai giovani con pazienza. Ricordo un episodio: alcuni liberali volevano prendersi le Case del Popolo per farne non so cosa, subito dopo la Liberazione, e le Case della Gioventù. Togliatti si arrabbiò e disse: “Per carità, lasciatele aperte! Devono essere luoghi dove i giovani si incontrano, discutono, decidono. Non si tolgono gli strumenti della partecipazione. I contenuti devono cambiare, certo, ma non gli spazi.”
Oggi, invece, non esistono più nemmeno luoghi dove i giovani possano incontrarsi nei quartieri. Non c’è più nulla di unità collettiva.
Qualcuno ha pensato, erroneamente, che i social network potessero sostituirli. È stato un errore clamoroso.
Esatto. La supplenza del telefonino non può essere una vera comunicazione. È questo che inizia a essere pericoloso. Ecco perché, celebrando il 25 aprile, io vorrei che ci fosse un impegno chiaro: ricreare nella società, nelle città, nei territori, degli spazi reali dove ci si possa incontrare senza telefonino.
Ricreare degli spazi: questo è il 25 aprile. Questa è l’eredità della Resistenza, possiamo dire.
Esattamente. Mi sembra il modo più efficace di ricordarla.
Continuate a rivendicare questo: è il gesto più antifascista che si possa fare oggi. Lasciamo spazi dove le persone possano incontrarsi e discutere.