
L’intervista a Pierluigi Bersani, andata in onda nello speciale “Una mattina mi son svegliato“.
Non possiamo non partire da Papa Francesco. Abbiamo letto tanti commenti sulle prime pagine dei giornali questa mattina. Lei come lo vuole ricordare?
È un uomo che ha acceso una luce sul mondo. Sul mondo così com’è, non come ce lo raccontano. Al di là di gesti, di battute – anche estemporanee – c’è un pensiero lì dentro. Basta leggersi le encicliche per vedere che, grattando un po’ sotto il linguaggio pastorale, profetico, c’è un’analisi accurata e aggiornatissima della realtà del mondo.
E a partire da questo rapporto incontrollato tra salto tecnologico e profitto, che sta portando al mondo degli insulti all’ambiente, delle solitudini e delle distanze tra le persone, delle tensioni di potenza tra le grandi potenze, delle pulsioni verso la guerra mondiale a pezzi. C’è un’analisi lì, e credo che quella luce debba rimanere accesa.
È un problema della Chiesa, ma non solo della Chiesa. Questo ci interessa tutti, penso.
Più che rivoluzionario, più che riformista… Forse la parola che meglio lo descrive è proprio quella di “profeta”. Ha profetizzato molte cose che si stanno realizzando. Anche quel “potere tecnocratico” che lui aveva intravisto. Bersani, lei ha scritto su Facebook che “tocca a noi adesso raccogliere quell’eredità”. Ma come si fa a raccogliere “quell’eredità” in un mondo che va in tutt’altra direzione?
Unendo le forze di chi riesce a leggere questo sviluppo, questo salto tecnologico secolare che si trascina – come dicevo – una politica di potenza e di profitto. Leggendo questa fase, questo salto, non con il luddismo di chi vuole distruggere le tecnologie, ma con lo sguardo umanistico.
Cioè, qui bisogna che le culture della sinistra, dei personalismi, delle religioni, e anche delle autentiche culture liberali, convergano. E leggano questa fase con uno sguardo umanistico. C’è una battaglia di idee, una battaglia culturale, che poi deve tradursi ovviamente anche in iniziativa politica, iniziativa sociale.
Così come quel pensiero negativo, regressivo, ha trovato espressioni politiche in tutto il mondo… bisogna dare la sveglia a delle culture alternative, che trovino uno slancio unitario per farsi politica, per farsi alternativa a quel pensiero. È un fatto mondiale, ma ciascuno se lo trova a casa sua, compresi noi, che ce lo troviamo qui in Italia, questo problema.
Bisogna reagire con speranza e fiducia, perché le forze ci sono. Non è che non ci siano. È che sono ancora troppo inconsapevoli e troppo disperse. E quindi ci vuole la militanza. Adesso è loro della militanza.
Tutto questo si inserisce, per forza di cose, col 25 aprile. Bersani, si riparte da lì per dare quello sguardo alternativo a quel mondo che intravedeva Papa Francesco, quello che stiamo vedendo noi tutt’oggi, quello che ci spiegava lei?
Io sto commemorando questo e quell’altro episodio della Resistenza, questo e quell’altro eroe. Ho commemorato in queste settimane un barcaiolo, un’operaia di un arsenale, un carabiniere, un cattolico, un prete, Duccio Galimberti, un liberale…
La Resistenza è stata un fiume che ha raccolto tanti affluenti. E il messaggio che arriva dev’essere questo, sostanzialmente: dev’essere quello di interpretare la Resistenza e la Costituzione come un incrocio di culture ferme attorno all’idea che bisogna creare emancipazione sociale dentro un quadro di istituzioni saldamente liberale.
Questa è stata la chiave di Resistenza e Costituzione. E oggi viene riproposta con tutta evidenza. Non è un 25 aprile qualsiasi, questo qui. Questo, ripeto, deve segnare un passaggio: dalla commemorazione alla militanza.
Perché oggi è ancora più chiara quella frattura, quella divisione, rispetto a quegli esempi che lei faceva. Quel fiume che raccoglieva tutti all’interno di un pensiero comune, condiviso… e oggi invece, quello che c’è là fuori, sembra voler escludere continuamente pezzi della società. Ormai è chiaro quello che è l’obiettivo.
Sì, è nato tutto questo – facciamocene una ragione chiara – smettendola di tornare sugli errori, i limiti di questo o di quello. La sinistra ha sbagliato qui, là… Negli anni ’90, nella fase ascendente della globalizzazione e del salto tecnologico, c’era la fase dell’ottimismo. Il centrosinistra vinceva dappertutto. Le culture democratiche e liberali vincevano dappertutto.
Poi – è già successo nella storia – sono spuntate le spine. È venuto fuori che la dinamica non alzava tutte le barche, grandi e piccole, ma creava disuguaglianze, divisioni, isolamenti, paure, incertezze… che sono diventate aggressive.
La destra ha dato la sua ricetta in tutto il mondo e ha creato un modello mentale e culturale riconoscibile ovunque, con gli stessi ingredienti in dosaggi diversi: nazionalismo su basi etniche, protezionismo, mercantilismo in economia. Il superamento della divisione dei poteri verso un esecutivo plebiscitario che prende tutto. L’idea di una morale di Stato, che ti dice chi sei, che cosa puoi fare, che l’utero è tuo ma è anche un po’ mio… i gay sono anormali, eccetera eccetera… il negazionismo della scienza e della storia: negazionisti del clima, dei vaccini, di quel che è stata la destra fascista, nazista, franchista nel Novecento.
Tutti questi ingredienti, in misura diversa, ci sono dappertutto. Ora bisogna contrapporre a queste idee delle idee alternative. Sulla base di un incontro. Perché sono in discussione le istituzioni liberali e i processi di uguaglianza ed emancipazione.
Serve un’alleanza fra chi ha a cuore questi principi. Un’alleanza culturale, una battaglia delle idee. Ma anche politica. Purtroppo, non c’è ancora la consapevolezza di cosa c’è davvero in gioco. Le forze da organizzare ci sarebbero. Perché?
Perché non c’è ancora quella consapevolezza? Perché le forze centrifughe sono ancora più forti di quelle che uniscono? Tra i partiti, stiamo parlando dell’unità dell’opposizione. È questo il senso delle sue parole?
Sì, secondo me. Allora, detta alla “Bersanese”: prima non si è visto che c’era la mucca nel corridoio, poi non si è visto che mucca fosse. Cioè, se si pensa che sia un passaggio abbastanza ordinario, assorbibile, che queste destre, questo pensiero, siano in qualche modo recuperabili, che siamo, cioè, nell’ordinario… no.
Qui siamo a un passaggio secolare. Il mondo e l’Italia possono prendere pieghe regressive che poi è difficile rimontare. Voglio credere che comincino ad esserci elementi – più nella gente che nelle forze politiche. Qui c’è un problema di classi dirigenti che non devono essere in coda ai processi ma guidarli.
Io, per l’orecchio a terra che ho, credo che nell’opinione pubblica, nella gente normale, ci sia più consapevolezza di quella che non si vede nei gruppi dirigenti e nella classe politica.
Dall’altra parte, sembra esserci in Giorgia Meloni la consapevolezza, che siamo a uno snodo cruciale della storia. Lei ce l’ha rispetto alle opposizioni.
Assolutamente. Lì, per esempio, questa consapevolezza ce l’hanno questi di destra in giro per il mondo. Perché si è creato una sorta di “internazionale della nuova destra”. Non so se lo vediamo, ma ha un legame ideologico molto forte, che batte pari sui temi: immigrati, protezionismo economico, eccetera.
Dall’altro lato invece, questa – diciamo – “internazionale” non esiste. Neanche su scala europea. Quindi sì, dall’altra parte c’è consapevolezza, perché sono sull’onda – io voglio credere provvisoria – di una fase vincente.
Mentre noi, intesi come grande mondo di una possibile alternativa, siamo un po’ tardati sulla fase nella quale vincevamo noi. Si fa fatica ad abbandonare le chiavi che ti hanno fatto vincere. Tanto per dirne una: negli anni ’90 vincevamo con parole d’ordine che erano “opportunità” e “merito”. Che segnalano l’estremo ottimismo di quella fase: immaginare un mondo dove le società sono organizzate in modo da dare opportunità a tutti e mandare avanti chi ha merito. Ma non si parlava più di “uguaglianza” allora. Adesso è ora di parlarne perché “opportunità” e “merito” non parlano alla gente, perché non è così.
L’altro lato, invece, ha smascherato questa impossibilità, dicendo: “Altro che opportunità e merito. Io ti proteggo contro chi è più debole di te, e ne faccio un capro espiatorio”. Questo meccanismo va disvelato.
Sono in gioco dei principi basici. Quando diciamo “divisione dei poteri”, noi qui in Europa la conosciamo da Montesquieu, 1748. Possiamo accettare che venga messa in discussione? Cioè, ci rendiamo conto che comincia ad esserci in gioco questo?
Vediamo com’è sta mucca. Io sono preoccupato che queste cose non siano ancora penetrate nei ragionamenti politici.
Ma perché? Perché non la si vuole vedere? Perché si ha paura di confrontarsi con la realtà?
Perché si ha poca fiducia nel popolo. Si ha poca fiducia nella gente. Si è in un circuito troppo stretto. Non c’è una politica che abbia l’idea che si possono suscitare le forze. Ma le forze ci sono!
Arriverà questo momento. Io sono sicuro. A cominciare dalla nuova generazione. Però intanto i danni possono essere molto seri. Parliamoci chiaro. Andiamo sul concreto: nel giro di pochi anni ci si può smontare in Italia il sistema fiscale, il sistema della sanità pubblica.
Noi abbiamo un grumo politico che regge la fase di oggi, che è post-missino. I missini furono gli unici contro la legge di riforma del sistema sanitario. Non si sono mai sentiti in quel mondo nuovo.
E c’è da stupirsi se questi preferiscono la sanità privata? Magari laziale, che va ancora meglio. Ma di che cosa ci stupiamo? È ora che ci svegliamo.
Domani avremo Maurizio Landini, segretario della Cgil, ospite da noi. Che cosa si sente di dirgli, anche in vista dei referendum dell’8 e 9 giugno, alla luce di tutto questo, della consapevolezza che è arrivato il momento di svegliarsi?
Guardi, lì comunque una sveglia arriva. Certo, è una fatica improba superare il quorum, per l’amor di Dio. Però io dico: dare il referendum è comunque un’occasione per dare una sveglia.
E io suggerirei di non tenere in seconda fila – oltre ovviamente alla prima fila dei temi del lavoro – questo tema della cittadinanza. Perché lì è uno dei casi in cui, ne sono sicuro, la coscienza collettiva è più avanti della politica.
La gente sa che a scuola, alla materna, eccetera, con suo figlio, suo nipote, ormai ci sono dei nuovi italiani che non vengono riconosciuti come tali. La cosa ha fatto dei passi avanti, è penetrata nel senso comune. Ci vuole qualcuno che la interpreti.
Valorizziamolo, questo aspetto. Perché può parlare a tanta gente che magari sui temi del lavoro ha meno attenzione, meno problemi, ma che invece comincia a sentire questo tema più da vicino.