Ieri, proprio qua a Esteri, raccontavamo come retribution, castigo, vendetta, sia una parola che si ascolta in molti circoli repubblicani, in queste settimane, riferita alle iniziative, soprattutto legali, da prendere contro i nemici di Donald Trump, quelli che lo hanno criticato o inquisito negli scorsi anni. Il pezzo era chiuso da poco, che una serie di notizie confermano la cosa, e vanno anzi al di là delle peggiori aspettative. Allora, prima notizia. Trump ha querelato il Des Moines Register, un giornale dell’Iowa, e la sondaggista del giornale, Ann Selzer, insieme alla sua società, per un sondaggio apparso sul quotidiano poco prima del voto del 5 novembre, e che dava un esito sorprendente, per uno stato solidamente repubblicano.
In Iowa, Kamala Harris sarebbe stata avanti di 3 punti rispetto a Trump. La cosa si è poi rivelata un errore, il giornale ha riconosciuto di aver preso un granchio, cercando anche di spiegare cos’era andato storto. Adesso Trump querela il Des Moines e la sondaggista per l’errore, spiegando di doverlo fare per mettere ordine nella stampa. C’è, in tutto questo, una cosa particolarmente interessante. Trump non querela per diffamazione, che è un reato molto difficile da dimostrare negli Stati Uniti, dove esistono leggi ampiamente protettive della libertà di stampa. Per poter vincere una causa per libel, per diffamazione contro un organo di stampa, bisogna dimostrare che c’è stata effettiva malizia, cioè un uso consapevole della menzogna per diffamare. Cosa, per l’appunto, difficile da dimostrare. E infatti, Trump querela per diffamazione, ma sulla base dell’Iowa Consumer Fraud Act, la legge dell’Iowa che protegge il consumatore dalle frodi.
La stessa cosa, peraltro, gli avvocati di Trump hanno fatto in Texas, dove 60 minutes, la celebre trasmissione di CBS, è stata querelata per pratiche ingannevoli del consumatore, per aver trasmesso un’intervista a Kamala Harris. In altre parole, Trump e i suoi cercano di colpire la stampa aggirando le protezioni per la libertà di stampa. Equiparano il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore a un consumatore, affermano che un organo di stampa ha fatto qualcosa di ingannevole, e quindi denunciano la stampa sulla base delle leggi a protezione del consumatore.
Le cause vengono poi presentate in Stati conservatori, Iowa, Texas, dove si spera di trovare giudici sensibili alle proprie istanze. Difficile dire dove porterà questa strategia, magari da nessuna parte, ma comunque queste cause, più che per vincerle, sono fatte per fare pressione, minacciare preventivamente, far riflettere i media due volte, prima di pubblicare qualcosa che non piace al presidente. Presidente cui ABC, quindi Disney, ha appena pagato 15 milioni di dollari per un errore compiuto da un suo giornalista, George Stephanopoulos, che in TV aveva detto che Trump era stato trovato responsabile di stupro. Un tribunale di New York l’aveva invece trovato responsabile di violenza sessuale.
Tutto questo peraltro arriva mentre i repubblicani della Camera chiedono un’indagine federale contro Liz Cheney, l’ex deputata repubblicana che ha guidato la Commissione di indagine sull’assalto al Congresso, che a loro giudizio avrebbe segretamente comunicato con una dei testimoni contro Trump. Insomma, gli attacchi di Trump e dei suoi fedelissimi a quelli bollati come nemici sono iniziati, sono diversi, toccano settori diversi, dalla libertà di stampa allal dissenso politico, e ci fanno capire una cosa soprattutto. L’inverno della democrazia sarà lungo, e pesante, negli Stati Uniti.