«L’Europa è malata collettivamente». Per Lucrezia Reichlin, economista, docente alla London Business School, intervistata oggi da Raffaele Liguori a Pubblica, non è più l’epoca dei singoli “sick man of Europe”, è un modello ad essere entrato in crisi, il modello europeo basato sull’esportazioni.
Germania, Francia e Italia sono i principali paesi dell’Unione Europea. Sono tutti in crisi ed è una crisi che sta scuotendo il sistema industriale europeo. Sono loro i grandi malati del continente?
L’Europa è malata collettivamente.
In questa circostanza è chiaro che la Germania è forse la più malata, perché è il paese più europeo. Il paese in cui il modello europeo è più evidente. Per modello europeo intendo un modello basato sulle esportazioni, cosa che la rende fragile in un mondo che si chiude al commercio internazionale. Noi italiani siamo nella catena del valore tedesca e quindi siamo vittime anche noi di questa fragilità. Ma in generale è un’Europa che non riesce a decidere collettivamente, che non riesce a sfruttare pienamente il mercato unico. Direi che – a differenza degli anni 90 – invece di parlare di un malato o di una malata dovremmo parlare della malattia collettiva dell’Europa.
La crisi è industriale, non è finanziaria. Un dato ci racconta la profondità del crollo. La produzione industriale da 18 mesi circa è negativa sia in Germania che in Italia. In Francia la produzione industriale cala “solo” da sette mesi a questa parte. Che cosa succede se l’Europa smette di essere una potenza industriale? I casi Volkswagen e Stellantis, che toccano i tre paesi insieme, dimostrano qualcosa in questo senso?
Sì, è una crisi industriale, come dicevo. E’ il mondo che si chiude, soprattutto con la chiusura strutturale del mercato cinese. E’ qualche cosa di annunciato. La Cina arriva a maturità, diventa un paese meno aperto al commercio internazionale. Il mercato interno per la Cina diventa più importante e quindi Pechino non sarà più quella forza trainante per l’industria tedesca e italiana come è stata nel passato. Questo ci dice una cosa molto importante. L’Europa – che è stata la grande beneficiaria dell’espansione del mercato cinese – a questo punto deve pensare ad un diverso modello: più basato sulla sua domanda interna (e meno sulle esportazioni). E da questo punto di vista la riluttanza della Germania, per esempio ad abbandonare le regole sul debito, o la riluttanza in generale verso le politiche di bilancio europee e di essere più a sostegno della domanda interna, è problematica. L’Europa non può più crescere solo per esportazioni. Deve crescere per domanda interna e investimenti, mentre invece gli investimenti sono molto deboli. L’altro problema è l’energia. Noi siamo strutturalmente deboli perché siamo dipendenti – a differenza degli Stati Uniti e di altri paesi – non siamo produttori di energia e quindi per noi, per esempio, l’investimento in rinnovabili è molto importante come programma di lungo periodo però non è una cosa che ci renderà autosufficienti immediatamente.
Professoressa Reichlin come usciamo da questa stretta? Gli investimenti sono pochissimi, i consumi stagnanti ed è difficile rilanciarli, e la domanda estera – se pensiamo a quella cinese – forse ce la dobbiamo dimenticare. Siamo finiti in un cul-de-sac?
Credo che l’Europa sarà costretta ad aggiustare il tiro in qualche modo. In Germania, il candidato della Cdu alla cancelleria Friederich Merz ha già detto che probabilmente la loro regola sul debito sarà rivista. Credo che in Germania cominci ad esserci un consenso che potrebbe portare alla revisione di alcune delle loro “colonne di pensiero” sulle politiche di bilancio. Purtroppo credo…il grande traino sarà la sicurezza. L’Europa mi sembra sempre più convinta del fatto che – arrivato Trump – non potranno più o non si potrà più appunto poggiare sugli Stati Uniti, per quanto riguarda la nostra sicurezza. Noi abbiamo comunque un grande problema in Europa dell’est e io penso che questa Commissione europea metterà in piedi un veicolo collettivo per la spesa sulla difesa. Naturalmente io avrei auspicato un veicolo collettivo anche per gli investimenti per l’ambiente, su questo sono meno ottimista. Però, intanto, fare dei passi avanti sulla difesa rompe dei tabù, in ogni caso. Quindi auspico che su questo piano si vada avanti, anche perché l’Europa dovrà trovare una nuova strategia dal punto di vista geopolitico in un contesto in cui Trump non sarà necessariamente una forza amica, anche se c’è ancora molta incertezza su come Trump si muoverà, sia per quanto riguarda le tariffe che in generale, rispetto a tutta la questione europea, ucraina e così via.
I casi Stellantis e Volkswagen. E’ possibile considerarli come due capitoli di una storia che riguarda il capitalismo europeo? Da un lato c’è il capitalismo familiare, dall’altro una sorta di capitalismo di stato. Il capitalismo familiare sembra in difficoltà, anche se ha i portafogli gonfi di dividendi. Nel capitale Stellantis ci sono le famiglie Elkann Agnelli e la famiglia Peugeot. In Volkswagen è coinvolta nell’azionariato la famiglia Porsche-Piech. A queste famiglie la fabbrica sembra interessare meno della finanza. A cosa pensano i membri del capitalismo familiare che sono sopravvissuti oggi in Europa?
Sono storie diverse. Se consideriamo non tanto il caso Stellantis, ma il caso della Germania, il caso più eclatante dell’aver perso la corsa all’elettrico, questo non è un problema di capitalismo familiare, ma è proprio un problema di eccessivo conservatorismo delle strategie industriali del settore automobilistico tedesco. La Volkswagen, e tutta l’industria automobilistica tedesca, ha perso la grande sfida di questa epoca, cioè la trasformazione verso l’elettrico. E’ arrivata in ritardo con una tecnologia….mentre i cinesi hanno fatto molto velocemente ciò che i tedeschi non sono riusciti a fare.
Ora, in una situazione in cui l’industria automobilistica tedesca ha ricevuto sussidi, ha ricevuto il supporto dello stato, ha avuto anche l’input dei sindacati, eccetera…direi che le spiegazioni sono molteplici, sicuramente il capitalismo familiare sono ormai decenni che mostra la sua fragilità. C’è comunque anche qualcosa di più. E’ quasi un paradosso. Noi abbiamo speso tanti soldi in sussidi per le rinnovabili e nello stesso tempo abbiamo perso la battaglia verso l’auto elettrica. Il che è un paradosso. Mentre i cinesi sono riusciti in qualche modo a rendersi autosufficienti su tutta la catena del settore automobilistico e lo hanno fatto in un tempo relativamente breve.
La crisi in Francia. C’è chi scrive preoccupato che l’alto debito pubblico francese – oltre il 110% – rischia di innescare una nuova crisi, tipo quella del 2010, la crisi del debito sovrano. E’ così, c’è un rischio concreto di diffusione di una crisi finanziaria oppure è solo allarmismo?
A me non sembra. Sembra che i mercati siano relativamente tranquilli rispetto al lato finanziario della crisi francese, però chiaramente questa crisi è una crisi politica di un paese che è necessario alla riforma europea. Senza la Francia e senza l’alleanza franco-tedesca l’Europa non va da nessuna parte. La Francia, essendo particolarmente debole in questo momento, costituisce un ostacolo al progresso. Questa crisi politica francese non si risolverà facilmente. Quindi non vedo una crisi finanziaria, anche perché la Francia è sì un paese con un debito alto (e sicuramente dovranno fare qualche cosa per mettere a posto le finanze pubbliche), ma i presupposti fondamentali in Francia non sono così deboli.
Per esempio, la Francia ha una dinamica demografica più robusta della nostra e più robusta della Germania, cosa che significa che il profilo del PIL è più sostenuto. E’ un’economia che hafatto relativamente meglio negli ultimi dieci anni, sia dell’Italia che della Germania.
Quindi direi che il problema della Francia è soprattutto un problema politico che mi preoccupa forse ancora di più, ma non vedo una crisi finanziaria imminente.