Il presidente della Corte d’Assise di Venezia ha letto la sentenza poco dopo le 16. L’aula l’ha accolta in silenzio. Un silenzio carico di dolore, come non poteva essere altrimenti. È ergastolo per Filippo Turetta. Dopo oltre 6 ore di camera di consiglio, i giudici hanno riconosciuto l’aggravante più pesante delle tre che gli venivano contestate. La premeditazione. Turetta ha pianificato di uccidere l’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Così ha stabilito la Corte che però ha escluso per lui le altre due aggravanti, su cui si è dibattuto a lungo, lo stalking e la crudeltà.
La sentenza chiude il processo di primo grado con il carcere a vita come in molti si aspettavano. Altri passaggi giudiziari ora seguiranno. Ma l’uccisione di Giulia è andata già oltre la cronaca. Lo si è visto nelle risposte di piazza che milioni di donne hanno dato in un anno e nel dibattito sulla cultura patriarcale, sulle sue logiche di dominio, che si è inevitabilmente aperto. Oggi lo si è percepito da due dettagli. Dall’attenzione dei media.
Nel piccolo tribunale di Venezia non si erano mai viste tante telecamere, diceva qualcuno passando tra i corridoi. Ma soprattutto lo si è capito dalle parole di Gino Cecchettin. “È stata fatta giustizia, ma abbiamo perso tutti come società. La violenza di genere non si combatte con le pene ma con la prevenzione”. Parole amare, ma centrate sulla matrice culturale della violenza.
Una sentenza non cancella il dolore per la perdita di una figlia. L’impegno in suo nome, per salvare altre donne, forse può lenirlo. “La lotta ai femminicidi è un percorso”, ha concluso Gino Cecchettin. Da qui non si deve tornare indietro.
di Mattia Guastafierro