Si è parlato molto in questi anni della restrizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti dopo la decisione della Corte Suprema che, di fatto, ha lasciato questo diritto delle donne in mano all’arbitrarietà della legislazione dei singoli stati, obbligando le donne a doversi spostare da uno stato all’altro per accedere all’interruzione di gravidanza. Anche nell’Unione Europea, al contrario di quanto si possa credere, esistono situazioni in cui le donne sono costrette a spostarsi da un paese all’altro dell’Unione per abortire.
In Europa il diritto all’interruzione di gravidanza è ampiamente riconosciuto. L’ultimo paese a riconoscerlo è stata l’Irlanda, nel 2018. Ma esistono due eccezioni: a Malta e in Polonia è praticamente proibito salvo in casi eccezionali, come il rischio per la vita della madre, violenza sessuale o anomalie fetali gravi. Le donne polacche e maltesi devono viaggiare in paesi vicini, o in ultima istanza recarsi in Gran Bretagna o Olanda dove è permessa l’interruzione di gravidanza anche nel secondo trimestre di gestazione. Ma l’ostilità verso l’aborto si fa sentire anche nei paesi dove è un diritto consolidato, come il caso del Portogallo. Qui la IVG, l’interruzione volontaria della gravidanza, è stata legalizzata solo nel 2007 dopo un referendum in cui il sì ottenne il 60% dei voti. Fino ad allora una delle poche alternative per le donne portoghesi era recarsi sulla nave-clinica della ONG olandese Woman on Waves.
Ma anche dopo la legalizzazione, abortire per le donne portoghesi rimane difficile. Non solo perché il Portogallo è uno dei paesi europei con una delle leggi più restrittive: è permesso solo entro le prime 10 settimane, rispetto alle 12 della maggioranza dei paesi europei o la vicina Spagna dove il limite è 14 settimane. Ed è proprio questa limitazione che sta obbligando le donne portoghesi a recarsi nelle cliniche spagnole per ottenere, a pagamento, il diritto che gli viene negato in patria. Secondo un’indagine del settimanale portoghese Expreso, più di 500 donne portoghesi solo nel 2023 hanno dovuto attraversare la frontiera per recarsi a Badajoz, una città vicino al confine, per interrompere la gravidanza.
Se si guarda indietro negli anni, si tratta di una costante: anche ne 2019 furono più di 500 gli aborti praticati in Spagna da parte di donne portoghesi. Una situazione che si ripete nelle zona nord, con centinaia di persone che dalla zona di Oporto viaggiano fino a Vigo, in Galizia. E si tratta di dati parziali perché non esiste un registro unificato che fornisca una visione dettagliata del problema, ma sono comunque una spia della difficoltà a cui devono far fronte le donne portoghese. Una situazione che si sta facendo sempre più grave dopo la pandemia, che ha visto aumentare il numero degli aborti del 15%. Nello stesso anno il 10% delle richieste, attorno a 1300, venne rifiutato per aver superato i limiti previsti dalla legge. E molte di queste hanno cercato una soluzione in Spagna, dove una legge più permissiva ha permesso alle donne di ottenere l’interruzione della gravidanza.
Non si tratta solo delle questioni, tecniche, dei tempi previsti dalla legge. Il 33% degli ospedali portoghesi non pratica l’IVG e un elevato numero di medici si dichiara obiettore di coscienza. E questo senza tener conto che esistono 3 giorni di riflessione obbligatori prima di poter accedere alla prestazione. Tutto questo ha provocato un intasamento del sistema sanitario che lascia molte donne scoperte. Ma esistono anche responsabilità politiche. Durante gli 8 anni del governo dell’attuale presidente dell’Unione Europea, il socialista Antonio Costa, il governo di Lisbona non ha mai proposto nessuna riforma del diritto all’aborto pur essendo cosciente del problema.
Il problema sono ancora una volta le profonde radici cattoliche del paese: di fatto i principali leader del Portogallo, cominciando dall’attuale presidente Marcelo Rebelo da Sousa, si definiscono cattolici praticanti.