Quelle che dovevano essere garanzie per i consumatori sono diventate, per molti aspetti, realtà opinabili. Stiamo parlando delle certificazioni, sia dei prodotti alimentari che delle materie prime per la costruzione, delle estrazioni minerarie e dei contratti di lavoro. Tutti ormai da tempo prestano il fianco alle critiche e spesso hanno perso ogni credibilità. I motivi sono numerosi. Innanzitutto, il costo delle certificazioni stesse risulta alto per i piccoli produttori, ma basso per le grandi multinazionali che, per giunta, possono facilmente aggirare i parametri stabiliti dai certificatori e i relativi controlli. Nel settore dell’industria, ad esempio, l’aggiramento avviene grazie alla rete di subforniture, un caso che si verifica tipicamente in Cina.
Nel settore agricolo il tema si fa ancora più complesso. Il recente Regolamento Europeo contro la deforestazione, che entrerà in vigore a dicembre di quest’anno, prevede, ad esempio, che l’importazione nell’Unione Europea di materie prime o semilavorati extra-UE non debba essere frutto di deforestazioni avvenute dal 2020 in poi. In questo modo si attua una sanatoria per tutti gli scempi ambientali commessi prima di tale data, ossia i primi 30 anni di globalizzazione, e si rilascia una patente di sostenibilità a imprese che, senza dubbio, hanno deforestato negli anni precedenti, vuoi per creare piantagioni di olio di palma, pascoli per bovini, coltivazioni di soia o per lo sfruttamento diretto del legname.
Va aggiunto che è oggettivamente difficile certificare che non ci siano state distruzioni di foreste negli ultimi 4 anni e, dunque, questa pregiudiziale, almeno in teoria, si presta a un uso strumentale, diventando un’arma di ritorsione contro l’export di alcuni paesi. A pagare, alla fine, sono sempre l’ambiente e le persone che vivono nelle aree interessate dalla deforestazione. Ma che cosa si produce maggiormente nelle zone considerate critiche? Cibo e minerali indispensabili per alimentare il grande mercato globale e, soprattutto, le tavole e l’industria dei paesi più ricchi, affamati di carne e foraggio per il bestiame, ma anche di terre rare, legname, litio e rame. Non bisogna poi dimenticare il ruolo della Cina, grande acquirente di queste stesse commodities, che di certo non si fa problemi di natura etica o ambientale.
La certificazione richiesta dall’Europa, a questo punto, diventa un’arma spuntata. Riassumendo: da un lato, il nuovo regolamento cancella anni di distruzione ambientale; dall’altro, può essere facilmente aggirato e, al limite, chi deforesta potrà rivolgersi ad altri acquirenti. Infine, diventa moneta di scambio nelle piccole e grandi guerre commerciali che imperversano nel mondo. Si gira all’infinito attorno al vero punto nodale, che non solo non viene affrontato, ma non può nemmeno essere nominato: il nostro modello di consumo. Finché continueremo a divorare foreste per produrre sempre più cibo, spesso destinato agli animali d’allevamento, biocombustibili e olio di palma per le creme spalmabili, e a estrarre metalli per una transizione energetica che non fa realmente i conti con la terra, non ci sarà certificazione che tenga. Continueremo, come ora, con una minoranza di consumatori che si sente tutelata dal marchio di garanzia, e una maggioranza che ritiene, a torto o a ragione, che lo sviluppo economico sia un diritto, costi quel che costi.