Mentre l’attenzione globale è concentrata sulla tensione tra Iran e Israele e su una possibile escalation a livello regionale in Medio Oriente, nella striscia di Gaza si continua a morire. I bombardamenti non si fermano e anche se l’invasione di terra di Rafah – la città del sud della striscia dove cercano rifugio quasi due milioni di persone – sembra essere stata per il momento rimandata, il governo israeliano ha ribadito più volte che l’attacco avverrà. In questo contesto, è sempre più difficile immaginare la fine di questo conflitto, che affonda le sue radici in una storia complessa e stratificata. Martina Stefanoni ha parlato con Amira Hass, storica firma di Haaretz, unica giornalista israeliana ad aver vissuto a Gaza e che ora ha scelto di vivere a Ramallah, in Cisgiordania.
È molto spaventoso il modo in cui stanno parlando di Rafah, andando tra l’altro continuamente contro la posizione degli alleati. Non sono in grado di dire se questo è un altro stratagemma di Netanyahu oppure se è vero che vogliono invadere la città. Sembra essere chiaro che sia stato concesso alle persone di spostarsi più a nord, ma la gente non ha nessun posto dove andare. La maggior parte delle persone che sono nel sud hanno perso le loro case. A Rafah la paura è enorme. Ci sarà una sofferenza più grande di quella che possiamo anche solo immaginare.
Io davvero non riesco a capire la logica. L’unica cosa chiara è che sono sordi a qualunque critica da parte della comunità internazionale e a qualunque suggerimento dato dai loro cari amici, negli stati uniti e in Europa. È evidente però che Netanyahu è determinato a evitare qualunque tipo di accordo con Hamas. Perché se parli adesso, in questo momento, di invadere Rafah, è chiaro che Hamas non avrà mai nessun interesse a rilasciare gli ostaggi.
Netanyahu ha sempre detto che l’obiettivo è distruggere Hamas. Sappiamo che questo è praticamente impossibile, quindi quando pensi che si fermerà?
Solo quando il mondo si imporrà nel conflitto in modo deciso, smettendo di inviare armi a Israele e imponendo altre sanzioni. Questa è l’unica cosa che farà capire a questo governo che non può andare avanti per sempre.
La società israeliana sembra essere in larga parte contro Netanyahu, ma non contro la guerra. È così?
Si, anche se credo che ora ci siano più persone che dicono che la guerra deve fermarsi, ma non sono voci molto forti. Io lo vedo tra alcuni miei colleghi ad Haaretz che all’inizio supportavano la guerra, ma ora non più. Però in generale direi che la società israeliana accetta la necessità o la sacralità della guerra o non so cosa. Lo stesso vale per l’esercito. Ora si sono ritirati da alcune aree della striscia, ma è solo per ricaricarsi e poi entrare a Rafah. Quindi si, la società israeliana appoggia la guerra. Purtroppo.
Parlando invece della società palestinese. Come è cambiato il rapporto con Hamas a Gaza e in Cisgiordania?
A Gaza ovviamente la gente è distrutta. Bisogna vedere i video per capire l’inferno in cui vivono da mesi. Io li guardo tutti i giorni e ancora mi è difficile comprendere. E ho anche molti amici là. Il dolore è continuamente moltiplicato. Da quello che ho sentito, so che la gente a Gaza critica Hamas, ma non osano alzare la voce e protestare e anche i giornalisti hanno paura di pubblicare o diffondere le critiche ad Hamas. In Cisgiordania, dall’altro lato, all’inizio c’era una grande ammirazione per Hamas per via dell’operazione militare del 7 ottobre e anche perché fino ad ora sono stati in grado di affrontare l’esercito israeliano e di impedirgli una vittoria. Che è una grande cosa per un gruppo militare che – paragonato all’esercito israeliano – è molto piccolo. Il reale supporto però è difficile da valutare. Senza dubbio c’è, ma non è detto che ci sarebbe in caso di elezioni. C’è supporto per l’atto di resistenza militare, per come lo vedono loro, ma non significa necessariamente che la gente voterà per Hamas se ci fossero elezioni. Cioè non è detto che lo stesso numero di persone che approvano l’azione di Hamas, voterebbe Hamas. Di solito i voti ad Hamas sono di un numero fisso di persone che condividono la stessa ideologia religiosa.
In questi mesi l’opinione pubblica mondiale è diventata sempre più critica nei confronti di Israele. Quanto pensi che conti questo per gli israeliani e per il governo israeliano?
Penso che i media israeliani siano molto conformisti, generalmente seguono la linea del governo con solo qualche eccezione per quanto riguarda la liberazione degli ostaggi ad esempio. Ma per tutto il resto, quello che fanno è dipingere un mondo antisemita, se posso generalizzare. Quindi per le persone è facile interpretare il cambiamento della posizione dell’opinione pubblica internazionale come antisemitismo o qualcosa di simile. Oppure una cattiva propaganda israeliana.
La gente in Israele, dal mio punto di vista, vive in un “La La Land”, non so come spiegarmi, non hanno ancora afferrato nemmeno l’1% del disastro che stanno facendo a Gaza, perché pensano che Hamas è stato così crudele il 7 ottobre – cosa che è vera – ma non è così che gestisci una politica.
Quello che succede politicamente è che Netanyahu dipende dai suoi ministri di estrema destra, dai coloni messianici e anche dagli ebrei ortodossi. E loro dipendono da lui, perché vogliono continuare a ottenere quello che stanno ottenendo. Quindi questa coalizione è cementata dagli interessi di ognuno quindi non sono toccati dall’opinione del mondo. Viene buttata in un angolo come qualcosa che non ha a che fare con la guerra, ma come una generica postura che il mondo ha nei confronti degli ebrei.
Pensando al futuro, come credi che sarà possibile per israeliani e palestinesi gestire la rabbia e l’odio che questo conflitto ha generato? Ha ancora senso parlare di soluzione a due stati?
Per la portata delle atrocità e del dolore e per tutta l’esposizione della politica israeliana nel suo momento più crudele e sanguinario credo che sarà molto difficile per molte generazioni soprattutto perché non c’è una leadership credibile palestinese. Ci sono persone competenti, ma non rappresentano la popolazione palestinese.
Non mi piace la parola “soluzione”, parliamo di fasi, fasi storiche. Le soluzione sono solo una cosa matematica. Ora quindi bisogna parlare della prossima fase. Al di là della ricostruzione di Gaza che richiederà decenni, e per non parlare della riabilitazione emotiva e fisica della popolazione, quello che serve è: fermare con la pressione internazionale il processo di colonizzazione israeliano, ristabilire la connessione tra Gaza e la Cisgiordania che Israele ha tagliato fin dai primi anni 90. I palestinesi residenti a Gaza devono avere il diritto di muoversi, vivere e lavorare in Cisgiordania e viceversa.
C’è tutta una serie di cose che bisogna ristabilire attraverso la pressione internazionale prima di poter anche solo iniziare a tornare a parlare di quello che la gente chiama “soluzione”, ma che io chiamo una nuova fase positiva che non permetta lo scoppio di altre guerre.
In questi mesi abbiamo sentito usare parole che hanno radici profonde nella storia, come pogrom, nazismo, genocidio ecc. Perché credi ci sia questa necessita di paragonare il presente e il passato?
Io cerco di evitare di usare alcuni termini, perché alla fine si finisce per discutere se è corretto usare quella parola, o se è corretta da un punto di vista legale. Preferisco descrivere quanto è terribile così che nel caso la gente può discutere quello, e non la parola in sé. Credo che emotivamente ogni palestinese in Gaza in questo momento senta di essere vittima di un genocidio. È vero o è falso legalmente? Non voglio entrare in questa discussione. È come l’olocausto? Non voglio paragonare perché voglio poter dire “questo è orribile”, punto. È orribile, inimmaginabile, incredibile, è qualcosa per il quale sono veramente arrabbiata e disgustata. Voglio che sia questo a essere compreso. Sai, potremmo paragonare la situazione ai Gulag, alla Cambogia… in Europa invece c’è questa tendenza a paragonare tutto quello che fa Israele con quello che hanno fatto i nazisti. Questo lo trovo angosciante, e disturbante perché l’Europa ha partecipato in un modo o nell’altro al tentativo nazista di annientare gli ebrei. Ci sono molti altri modi per mostrare quanto sia insopportabile, disgustosa e crudele sia la guerra di Israele a Gaza. Ed è la rappresentazione di una politica, non è disconnesso. La gente prende il 7 ottobre come l’inizio del problema, ma no. È stato orribile, e sono contraria a ogni tentativo di glorificare quanto successo o di giustificarlo, ma posso la comprendo in quanto esplosione della rabbia nei confronti di Israele, come reazione alla sua crudeltà nei confronti dei palestinesi, che prosegue da anni. È su questo che preferisco parlare di contesto storico, non comparandolo con altri eventi, ma come reazione storica, come resistenza, anche se con metodi e modi che non condivido assolutamente, ma come resistenza di un popolo occupato.
Bisogna parlare delle politiche che Israele da anni porta avanti, specialmente dal trattato di Oslo, per bloccare l’orizzonte politico e umano di ogni palestinese. Questo è il contesto di cui dovremmo parlare, non se è paragonabile a Hitler, Stalin o chi altro.
FOTO| Amira Hass a Gaza durante l’Intifada di al-Aqsa nel 2001