In Ucraina, la salute mentale di quasi 10 milioni di persone, specialmente bambini e persone con disabilità, rimane fortemente a rischio. Le zone coinvolte nel conflitto continuano ad affrontare quotidianamente la paura e la precarietà. L’Ong Cesvi offre servizi di supporto psicologico in numerose città, e in particolare nella cittadina di Bucha. Chawki Senouci ha intervistato Irma Gjinaj, capo missione Cesvi in Ucraina…
Abbiamo iniziato a supportare gli ospedali, soprattutto quelli psichiatrici, poiché operiamo nel campo della salute mentale e del supporto psicologico, e sappiamo quanto siano importanti. L’aiuto psicologico viene fornito attraverso i cosiddetti ‘Mobile Team’, specialisti che si recano nei villaggi per effettuare vari interventi sulla popolazione. Per quanto riguarda il supporto agli ospedali psichiatrici, fino ad ora abbiamo fornito materassi, prodotti igienici, lenzuola e coperte. Immaginate che un ospedale che inizialmente aveva una capacità di 150 persone può trovarsi a dover fronteggiare una situazione in cui ospita 300 persone. Tutto questo perché, ovviamente, il problema della Salute Mentale nel paese è molto grave e non si risolverà a breve.
Nel nostro paese, il sistema di trattamento della salute mentale è ancora di stampo sovietico. Il governo si sta impegnando attivamente per cambiare questa mentalità, e noi stiamo lavorando attentamente per offrire supporto diretto agli ospedali e contribuire in modo attivo a questa trasformazione metodologica nel trattamento dei pazienti. Abbiamo avviato una collaborazione con il dipartimento della salute mentale di Trieste. Con il supporto degli specialisti italiani e in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, intendiamo contribuire al cambiamento delle metodologie nel trattamento dei pazienti e, se possibile, alla creazione di nuovi ospedali psichiatrici.
Com’è la situazione oggi a Bucha, dopo l’incubo che ha vissuto?
Bucha è una cittadina molto particolare e molto vicina sia a me che al Cesvi in generale. Come sapete, siamo stati lì fin dall’inizio, così abbiamo potuto osservare giorno dopo giorno i cambiamenti. Quando siamo arrivati, non c’era nessuno per le strade. In apparenza, sembrava tutto tranquillo, calmo e pulito, come se non fosse successo niente. Poi, però, vedevamo i palazzi bombardati e potevamo percepire il terrore nelle persone. C’è voluto un po’ anche per loro per aprirsi, ma piano piano le persone hanno cominciato a ritornare a Bucha. Adesso è una città che vive, con le scuole aperte e la vita normale che è ricominciata. Addentrandosi nel tessuto sociale della cittadina e dei villaggi, però, ci si rende conto che i traumi sono ancora presenti. La guerra non è finita, le persone continuano ad andare a combattere e molte famiglie sono separate o vivono con l’ansia di attacchi frequenti diverse volte alla settimana. Bucha sta cercando di intraprendere la strada della ricostruzione. È una cittadina caratterizzata da un notevole ottimismo. Certamente, se siamo ancora lì dopo due anni, è evidente che c’è ancora bisogno di supportare la popolazione locale. In particolare, dal punto di vista psicologico, questa è la parte che richiederà ancora molto, molto tempo per essere superata.
Solitamente, chi affronta un’esperienza difficile tende a isolarsi, a tacere, a non condividere ciò che ha vissuto. Come riuscite a lavorare con la popolazione di Bucha che ha attraversato questo trauma?
È stato un lavoro abbastanza impegnativo sotto questo punto di vista, visibile anche a livello personale. Ci vuole del tempo, sia culturalmente che personalmente. Dopo un trauma, è ancora più difficile; è necessaria molta costanza e, soprattutto, fiducia. Piano piano, le persone devono conoscerti, sapere che sei lì costantemente. E poi, gradualmente, cominciano ad aprirsi. Non è facile, ma il nostro staff è composto anche da persone del luogo, che hanno vissuto lo stesso trauma. Inoltre, il fatto che siano professionisti è di grande aiuto. Gli due ultimi anni di lavoro ci hanno permesso di farci conoscere dalle persone. Ora sanno che garantiamo riservatezza, possono sentirsi liberi di aprirsi e sanno che c’è un luogo dove possono incontrarsi e parlare tra di loro, anche senza partecipare a terapie o cure psicosociali.
La scuola sta aiutando i bambini, a esprimersi e a guarire da questo trauma?
La partecipazione dei bambini in presenza è stata una sfida. I genitori avevano paura di mandare i bambini a scuola, considerando il rischio di attacchi improvvisi. Inizialmente, abbiamo concentrato i nostri sforzi su questo aspetto, creando spazi sicuri dove i bambini potessero venire. L’obiettivo era evitare che rimanessero a casa tutto il giorno, permettendo loro di allontanarsi un po’ da questo clima di terrore e di paura. Abbiamo lavorato con più di 3.700 bambini, una volta che le scuole sono state aperte e hanno ripreso a funzionare. Tuttavia, se le scuole non dispongono di un buon rifugio o di un seminterrato dove i bambini possono andare durante gli allarmi, non possono riaprire. Stare a casa, magari con genitori senza lavoro, con il padre al fronte a combattere, o con la madre che, avendo vissuto queste esperienze traumatizzanti, non sta bene, può rendere difficile per un bambino essere felice. L’apertura delle scuole e il poter stare con gli altri bambini, riprendendo una vita normale, hanno contribuito notevolmente. Tuttavia, abbiamo ancora molti casi di bambini che necessitano di un supporto psicologico.
Qual è lo stato d’animo della popolazione dopo due anni di guerra, di lutti e di distruzione?
Diciamo che va a periodi, non è dei migliori. Devo dire che il popolo ucraino mi ha stupito fin dall’inizio per la sua incredibile resistenza. Tuttavia, considerando che da due anni vivono in una situazione di tensione, stress, paura e continui bombardamenti, è facile immaginare che la gente possa essere stanca. C’è incertezza sulla continuazione degli aiuti umanitari, sugli sviluppi al fronte e sul futuro in generale. È difficile fare programmi, è complicato per una coppia sposarsi perché domani il marito potrebbe dover andare al fronte, è arduo pensare di fare un figlio perché non si vuole far crescere un bambino in questa situazione. Conosciamo madri che hanno bambini piccoli e che per intere settimane, a causa dei continui allarmi notturni, sono costrette a passare le notti nei rifugi, se li hanno. Altre si chiudono in bagno o in un altro posto senza finestre per proteggersi. Vivere in questo modo è veramente duro. Pertanto, lo stato d’animo della popolazione è questo. Se parliamo della parte dell’est del paese, dove i bombardamenti e le distruzioni sono all’ordine del giorno, la situazione è ancora peggiore. La popolazione continua a vivere un ciclo di partenze e ritorni, in attesa di vedere cosa succederà domani. È un momento abbastanza fragile e difficile.