“Expat” è il diminutivo di “expatriate”, “espatriato”, ed è una parola che si usa ormai anche in lingue diverse dall’inglese. Questa la definizione del vocabolario Treccani: “Chi si stabilisce temporaneamente o definitivamente all’estero per motivi di lavoro”. È anche il modo in cui, con ipocrisia colonialista, spesso si traccia la distanza tra coloro per cui trasferirsi all’estero in cerca di una vita migliore (o anche solo per desiderio o capriccio) è un privilegio indiscutibile, e tutti gli altri, quelli in genere definiti “migranti” o “immigrati”, e quasi sempre trattati come “un problema”, “un’emergenza”, o peggio. Le tre protagoniste americane di Expats, nuova miniserie cominciata a fine gennaio su Prime Video, sentono di appartenere alla prima categoria, seppur con background e storie molto diverse.
A Hong Kong, dove vivono, quella degli expat è una “sotto-comunità” a sé, formata da famiglie ricchissime e influenti, uomini e donne d’affari trasferitisi per fare ancora più soldi in uno degli epicentri del commercio mondiale. Margaret, interpretata dalla premio Oscar Nicole Kidman, è la bella ed elegante moglie di un ricco businessman: ha traslocato con lui e con i figli a Hong Kong, abbandonando il proprio lavoro, per un periodo che sarebbe dovuto essere ridotto, ma che ora non sembra destinato a finire presto; Hilary (l’attrice indiano-americana Sarayu Blue) vive nello stesso lussuosissimo condominio di Margaret, ed è una delle sue migliori amiche, ma non ha figli e pare abbastanza soddisfatta della propria vita professionale nell’ex colonia britannica, nonostante quella matrimoniale sia in crisi; e infine c’è Mercy (impersonata dall’emergente Ji-young Yoo), americana di origini coreane, che invece è giovanissima, ha appena 24 anni, ma non sa che direzione dare alla propria vita: dopo la laurea alla prestigiosa Columbia University è fuggita a Hong Kong su consiglio di un’amica e si barcamena tra lavoretti di catering, babysitting e simili, in attesa di un’occasione.
Le vite di queste tre donne, in una delle metropoli più popolose del mondo, collidono a causa di una tragedia che colpisce prima di tutto Margaret: la scomparsa di Gus, il suo figlio più piccolo, durante una fatale passeggiata notturna al Temple Street Night Market. Da ormai una decina d’anni, la diva hollywoodiana Nicole Kidman pare aver trovato una nuova e prolifica dimensione attoriale proprio sul piccolo schermo, anche come produttrice, come in questo caso; dal successo di Big Little Lies in avanti, sembra anche seguire una strategia ricorrente, scegliendo romanzi bestseller – in questo caso, Expats – La vita delle altre di Janice Y.K. Lee – incentrati sulle esistenze privilegiate di comunità molto abbienti, ma impegnati a rivelarne anche le contraddizioni e gli angoli ciechi, con protagoniste apparentemente perfette che, sotto il profilo di porcellana, gli abiti firmati e l’impeccabile messa in piega, nascondono crepe sempre più profonde.
È il caso, appunto, del già citato Big Little Lies e di The Undoing e Nine Perfect Strangers; in altri casi, come in Top of the Lake di Jane Campion, Kidman ha scelto di mettersi al servizio di ruoli più inusuali, e di sguardi autoriali precisi. Expats è un po’ la somma di queste due tendenze, perché a dirigere tutte e sei le puntate c’è Lulu Wang, regista americana di origini cinesi che nel 2019 aveva raccolto un grande successo (anche nel circuito dei premi) con il suo secondo film, The Farewell – Una bugia buona (Wang è pure la compagna di Barry Jenkins, altro filmmaker indipendente molto apprezzato, regista di Moonlight, Oscar al miglior film 2017).
In The Farewell, con qualche eco autobiografico, metteva in scena un’altra delicata storia di migrazione, raccontando il viaggio in Cina, per trovare la nonna malata, di una ragazza di seconda generazione cresciuta negli Stati Uniti. In Expats segue le protagoniste mentre sullo sfondo delle loro peripezie personali si svolgono le proteste dell’Umbrella Movement (la miniserie è ambientata nel 2014), inquadrandole con grande sensibilità nel brulicante spazio urbano. E, soprattutto, sceglie di dedicare un intero episodio – il quinto, più lungo, e presentato in anteprima ad alcuni festival – a un cambio di punto di vista e dunque di prospettiva, rendendo protagoniste le domestiche filippine che condividono l’esistenza con i ricchissimi stranieri di Hong Kong, costantemente al loro servizio: anche loro sono “expat”, persone che hanno abbandonato per lavoro il proprio paese, con molta più fatica e molti meno privilegi. Facendole scivolare dai margini al centro, Wang prova a tracciare più in profondità il ritratto di una comunità alla deriva, e delle sue interconnessioni.