“Voglio che il mondo sappia che Gaza è tutta una questione di vita, proprio come qualsiasi altro posto al mondo. Voglio che il mondo sappia che Gaza non è il luogo devastato, polveroso e ammuffito che troppo spesso viene mostrato nei notiziari. Voglio che il mondo sappia che i palestinesi non sono né vittime né eroi. Proprio come tutte le altre persone, ci svegliamo ogni giorno per andare a scuola o al lavoro, ridiamo quando sentiamo una battuta divertente e piangiamo quando abbiamo mal di denti. Amiamo l’odore del mare e i colori del cielo, soprattutto al tramonto, e odiamo andare dal dentista anche quando sappiamo che dovremmo.”
Queste parole le scriveva 6 anni fa Anas Jnena, scrittore di Gaza e coordinatore del progetto “We are not numbers”, dove ragazzi e ragazze palestinesi pubblicano le loro storie in inglese.
Jnena le scrive sei anni fa, e oggi leggerle fa ancora più male.
Non solo per il motivo più ovvio, gli oltre 20mila morti della striscia di Gaza, le bombe che non si fermano, le case distrutte, le scuole e gli ospedali presi di mira, la fame, la sete e le malattie. Ma perché a Gaza oggi, vivere è impossibile. Chi sopravvive ai bombardamenti, muore dentro ogni giorno di più. Muore perché ogni giorno è peggio del precedente e muore perché la precarietà è diventata l’unica costante delle loro vite. Mohammad e Sami, i due Gazawi che dall’inizio del conflitto ci raccontano la vita a Gaza, si sono spostati innumerevoli volte con le loro famiglie. Mohammad, che viveva a Jabalia, nel nord, è andato a sud quando l’esercito israeliano è entrato nel nord. Poi è tornato nel nord quando ha visto che le bombe cadevano anche a sud. Poi di nuovo giù, a Khan Younis, che fino a qualche settimana fa era il posto sicuro dove andare e ora è invece l’epicentro dei bombardamenti. Sami viveva a Khan Younis ed è scappato a Rafah, con la sua famiglia ha costruito una tenda di plastica direttamente sulla spiaggia. In due mesi e mezzo queste persone si sono dovute spostare 3, 4, 5 volte. Ogni volta più stanchi, più affamati, più impauriti, più sfiduciati e con sempre meno cose da portare con sé. Una condizione che se anche non ci fossero le bombe a distruggere ciò che lasciano indietro, fiaccherebbe nel corpo e nello spirito chiunque. E come ci si riprende da un’esperienza del genere?
Abbiamo sentito tante volte in questi mesi la denuncia fatta da ONU e ong: “non c’è un posto sicuro”. A volte le frasi quando si ripetono tante volte si svuotano di significato, per questo bisogna pensarci attentamente, per capirne la portata: non sentirsi al sicuro da nessuna parte, vuol dire che la vita si ferma. Perché tutto ciò a cui si può pensare è cercare di non morire.
“Voglio che il mondo sappia che la Palestina ha scrittori, artisti, pensatori e, soprattutto, amanti- concludeva Anas Jnena – Voglio che il mondo sappia che siamo umani, proprio come te”.
A Gaza vivere è impossibile
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Autore articolo
Martina Stefanoni