C’è dappertutto, dalle cime delle montagne alle profondità degli oceani. E anche nell’organismo degli animali, esseri umani inclusi. Sua maestà la plastica ha rivoluzionato il nostro mondo: oggi è il terzo materiale prodotto dopo acciaio e cemento. La prima materia sintetica nacque in laboratorio subito dopo la metà dell’Ottocento, era un tipo di celluloide; di poco successiva fu l’invenzione della “seta artificiale” derivata dalla cellulosa, il rayon, materiale prodotto industrialmente già alla fine del XIX secolo. Attorno al 2000 sono nate le bioplastiche, elaborate con il mais e altri prodotti naturali. In mezzo c’è stata l’invenzione di PVC e PET, diventati parte essenziale della nostra vita quotidiana: materiali duttili, leggeri, durevoli e soprattutto economici, adatti a mille usi diversi. Ma i problemi creati dalla diffusione capillare delle plastiche stanno proprio nel concetto di “durevole”, oltre che nell’utilizzo delle materie prime necessarie per fabbricarle: soprattutto cellulosa, carbone, gas naturale e tanto petrolio.
Il “boom” della plastica si deduce facilmente dai numeri. Nel 1964 se ne producevano in tutto il mondo 15 milioni di tonnellate; nel 2017 le tonnellate prodotte erano 310 milioni. Secondo i dati del WWF, ogni anno finiscono negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di plastiche: si stima che in acqua ve ne siano già più di 150 milioni di tonnellate. Se si confermasse l’attuale tendenza, nel 2025 avremo nei mari una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce, mentre tra vent’anni la plastica supererebbe la fauna marina. Nel corso del tempo, la plastica si degrada rilasciando le cosiddette microplastiche, cioè minuscole particelle che vengono ingerite dalla fauna marina e poi anche da noi, quando mangiamo pesce o semplicemente quando beviamo acqua potabile, perché entrano nel ciclo dell’acqua.
La plastica è però anche un materiale democratico, che permette di vendere a basso costo tantissimi prodotti che in molti Paesi, soprattutto per le classi sociali più basse, sono gli unici a portata d’acquisto: dalle ciabattine ai secchi per trasportare l’acqua, dai vestiti ai contenitori del cibo, la plastica è sempre presente nella vita dei più poveri della Terra. Difficilmente se ne potrà fare a meno, ma bisognerebbe regolamentarne l’uso e soprattutto lo smaltimento. È il compito che si è dato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che dal 13 al 19 novembre ha organizzato un incontro a Nairobi per cercare di far approvare un trattato globale sull’uso della plastica. È un percorso lento, che ha già avuto due tappe in Uruguay e in Francia, e che si prevede di concludere entro il 2025. La bozza attorno alla quale si sta lavorando si articola su tre punti fondamentali per quanto riguarda la produzione di plastica: fissare un obiettivo di riduzione, sulla scia del Protocollo di Montréal sull’ozono; fissare dei target globali definendo tabelle di marcia per ogni singolo Paese, come nel Trattato di Parigi sul Clima; evitare che siano i singoli Governi a fissare gli obiettivi, perché potenzialmente ricattabili da parte dell’industria del petrolio. Per le compagnie del comparto oil, infatti, il progressivo calo del consumo di idrocarburi fossili nel settore energetico, dovuto all’uso di energie rinnovabili, dovrebbe essere “compensato” anche dall’aumento della fabbricazione di plastiche. È l’ennesimo collegamento tra temi apparentemente lontani che racconta la complessità e soprattutto l’interconnessione dei problemi della Terra. Più energie rinnovabili si usano, più plastica si rischia di fabbricare: questo perché si continua a rimandare il confronto sul tema centrale, quello del nostro modello di sviluppo, impostato ancora sull’utilitarismo. Tutti sappiamo quanto siano utili le plastiche, ma al contempo evitiamo di fare i conti con le ricadute sull’ambiente e sulla salute umana.