In rimonta negli ultimi dieci minuti di partita, nella semifinale contro l’Inghilterra. Così la Nazionale sudafricana di rugby, gli Spingboks, hanno conquistato la finale della Coppa del mondo.
Sabato prossimo, allo Stade de France di Saint-Denis, incontreranno la Nuova Zelanda, quelli che tutti chiamano gli All Blacks, celebri per la loro “haka”, la danza tradizionale del popolo maori con cui iniziano ogni partita.
È la finale tra le due formazioni più titolate della storia. Non si affrontano nella partita più importante dal 1995, dalla Coppa del mondo disputata nel Sudafrica di Nelson Mandela.
Della finale che ci aspetta abbiamo parlato con il giornalista Marco Pastonesi, scrittore e autore, grande appassionato di rugby.
Che cosa hai pensato quando hai visto che sarebbe stata questa la finale?
Ho pensato che la storia è un corso e ricorso, è un eterno ritorno. All Blacks e Spingboks sono gli avversari storici, gli avversari più belligeranti. Ho pensato anch’io a quella finale del 1995.
Come riassumeresti il percorso delle due finaliste in questa Coppa del mondo?
È un percorso per entrambe cominciato in salita, entrambe sono state sconfitte. Sono le rappresentanti di due rugby profondamente diversi, storicamente diversi. Il Sudafrica gioca di mischia, di pura “ignoranza”, di forza fisica, metallurgica. Gli All Blacks giocano soprattutto con i “trequarti”, cercano gli spazi, le aperture, giocano alla mano, il loro è un gioco spettacolare.
Secondo te queste due sono Nazionali in qualche modo speciali? Portano in campo qualcosa in più di due semplici squadre?
Portano in campo la loro storia. Soprattutto quella del Sudafrica. Aveva negli Springboks l’espressione dei bianchi, dei Boeri, quindi dell’apartheid. Poi con Mandela, proprio in quell’edizione del 1995, ritratta ed esaltata nel film Invictus, è diventata la prima espressione sportiva e culturale dell’integrazione. Oggi la Nazionale non ha più “quote” per avere almeno uno o due giocatori neri. Oggi non mi sembra più che almeno lì ci siano dei residui di razzismo.
È già possibile dire per cosa sarà ricordata questa edizione della Coppa del mondo?
Certo per la sua lunghezza: è cominciata l’8 settembre e finisce il 28 ottobre. Mi piace ricordare la crescita di alcune Nazionali che un tempo erano la lontana periferia dell’impero: il Portogallo, il Cile, l’Uruguay oggi giocano un rugby divertente e valoroso. Piano piano il rugby sta crescendo. Il pericolo, invece, è che c’è un gioco estremamente fisico, questa Coppa del mondo lo ha dimostrato. Una volta si vedevano dei “piccoletti” che avevano fantasia e gioco di gambe, oggi è sempre più difficile trovare questo. Le poche volte che capita ci innamoriamo di nuovo della bellezza del rugby.