Mia cara Olympe

Stupro: quanto pesano le parole di un padre

Le parole, a commento degli orrori in sequenza  di Palermo e Caivano, orrori che ti fanno dubitare che esistano e servano ancora parole adeguate, dotate di un senso che non sia il loro ripetersi, ogni volta, eguali  – la cultura, la scuola, le relazioni, come si cresce, come si fa sesso, cos’è il sesso, l’autorizzazione maschile, il potere e il suo esercizio, la miseria umana, le logiche del branco, le famiglie, i padri, le madri, i codici culturali e sociali, l’abbandono dei contesti e quante ancora ne potremmo aggiungere – le parole importanti dicevo stavolta le ha dette un padre. E sono da ascoltare, rileggere, elaborare, farne tesoro. Non risparmia nessun dettaglio, rivolgendosi alla ragazza di Palermo, mette in fila – il padre della ragazzina vittima dello stupro che le cronache hanno ribattezzato ‘di capodanno’ perché ci sarà quello di Pasqua, di Natale e del compleanno, si sa che serve sintesi per i titoli –  tutti i gradini, uno dopo l’altro, uno più faticoso del precedente, che sua figlia, appena 16 anni e per fortuna  con una famiglia che sostiene, ha dovuto salire da quando ha deciso di denunciare la violenza subita da almeno 5 persone, ad una festa in cui è stata drogata.  “Hai fatto bene a reagire contro chi, sui social, ha facilmente concluso – scrive il padre alla ragazza palermitana –  che a ‘una come te’ è ‘normale’ che capiti…ma ti scrivo per avvertirti: sei sola, gli altri non capiscono”.  La lettera è stata pubblicata sul sito di Repubblica e una prima richiesta da fare è che non sia solo riservata agli abbonati:  è importante che la legga per intero più gente possibile.

Chi qui scrive non è una fanatica, in tema di violenza, della ‘storia vera’: le testimonianze, se non sono contestualizzate e ‘maneggiate’ con estrema cura, possono avere un effetto accumulo, attirare una lettura morbosa, e provocare quella che si chiama vittimizzazione secondaria. Qui però vale l’eccezione: questo padre racconta cosa è accaduto a sua figlia durante e dopo lo stupro – e del trauma, della paura, degli psicofarmaci, dei disturbi alimentari, del crollo di fiducia nel mondo si dice poco – ma anche di ciò che è accaduto a lui, di quanto l’affetto e il sostegno sembri non bastare, di quanto il sonno sia a un occhio solo, come quello dei cetacei, perché nei momenti più bui tua figlia ha evocato il desiderio di farla finita. “Vittima di uno stupro di gruppo, cosa vuol dire? È paradossale perché di eguaglianza fra i generi mi ero già occupato professionalmente, ricevendo persino un premio… ma prima che succedesse a mia figlia, a noi – proprio a noi – io stesso non avevo capito. La gente non capisce”. Il padre definisce lo stupro ‘un puzzle di tradimenti’ e non solo di chi  di te si serve e poi ti butta via  ma anche di coloro, i testimoni, per i quali diventi,  tu vittima che ha deciso di denunciare per proteggere tutti, ‘una scocciatura di cui sbarazzarsi’.

Si è sentita tradita, sua figlia, da quelli che considerava i suoi amici – non solo coloro  che l’hanno brutalmente stuprata ma coloro che poi hanno minimizzato, minacciato, scansato, detto che sembrava consenziente – e tutti sappiamo, a 16 anni, quanto mondo rappresentino gli amici e che, se quello frana, frana tantissimo. E questa frana travolge anche chi le sta accanto e sa che più è violenta quella caduta, più lungo, difficile, costellato di nuovi inciampi, sarà il cammino della ricostruzione e che molto – lo scrive il padre – farà anche l’esito del processo. Già così duro da affrontare si spera riconosca, con una giusta sanzione, il coraggio di chi, così ferita, affronta anche le montagne russe di essere una ‘vittima pubblica’, una vittima che, sostenuta da chi le vuol bene e attraversa con lei ciò che non era neanche lontanamente immaginabile, trova la sua voce.

Sensibilizzare, prevenire, tutelare, progettare sono i verbi che scegliamo, avevamo scritto molti anni fa con le donne di Usciamo dal silenzio in un documento sulla violenza: c’è da fare prima, c’è da curare dopo, c’è da non lasciare sole, c’è da restituire sostegno forte, aperto alle vittime. C’è da credere alle donne, alla loro ferita: facendo tutto ciò che serve a una giustizia che somigli a se stessa, certo, ma che restituisca loro il senso profondo e importante di una scelta fatta per tutte.

 

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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    Il PAC, Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano, ospita un'ampia mostra personale dell'artista iraniana SHIRIN NESHAT vincitrice del Leone d’oro alla Biennale di Venezia del '99, del Leone d’argento per la miglior regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Premium Imperiale a Tokyo mel 2017. I temi esplorati dall'artista sono quelli dell’identità', della memoria e dell’appartenenza. La lente attraverso cui Neshat interpreta la Storia e la Contemporaneità non solo del suo Paese d'origine, l'Iran, ma del mondo intero, è lo sguardo delle donne: dagli esordi nei primi anni Novanta con la serie fotografica Women of Allah, i celebri corpi femminili istoriati con calligrafie poetiche, fino a The Fury, video-installazione che anticipa il movimento “Woman, Life, Freedom”. La ricerca di Shirin Neshat però travalica il tema di genere e, partendo dal dualismo uomo-donna, indaga le tensioni tra appartenenza ed esilio, salute e disagio mentale, sogno e realtà. La mostra è visitabile dal 28 marzo all'8 giugno. Il servizio di Tiziana Ricci.

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