80 anni dopo, Radio Popolare con l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, Isrec Bergamo, la Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e l’archivio nazionale diaristico di Pieve Santo Stefano vi propongono una rievocazione di come gli italiani e le italiane vissero (e raccontarono) l’annuncio dell’armistizio, le ore e le giornate successive l’8 settembre 1943.
Lo faremo con due iniziative originali, curate da Claudio Jampaglia ed Elisabetta Ruffini (direttrice Isrec Bergamo): un podcast in cinque episodi e una ventiquattr’ore di incursioni sonore radio-storiche. Con l’aiuto di storiche e storici e degli archivi degli Istituti della Resistenza, vi proponiamo testimonianze, diari e racconti per mettere in luce e riordinare le differenze geografiche, di genere, di età che accompagnano un momento dai sentimenti fortemente contrastanti, in cui tutto sembra cambiare: dalla attesa fine della guerra si passa all’occupazione tedesca in pochi giorni (ma in alcune zone sono ore) e soprattutto all’organizzazione spontanea di migliaia di gesti di aiuto, solidarietà, soprattutto di donne, per aiutare, salvare, nascondere, cominciare a resistere.
Oltre ai cinque podcast in onda dal lunedì 4 settembre a venerdì 8 settembre, dalle ore 19.45 dell’8 settembre ascolteremo delle incursioni sonore (per il giorno della memoria le avevamo chiamate “memorie d’inciampo”) o se preferite interferenze radio-storiche ovvero una serie di testimonianze e racconti che punteggeranno la programmazione di Radio Popolare per 24 ore, facendoci rivivere quelle giornate. I podcast saranno disponibili anche su tutte le piattaforme.
Il progetto si intitola “La strada nel bosco” come la canzone che precedette sulle frequenze radiofoniche del Eiar il proclama del maresciallo Badoglio alle 19.43 (c’è chi dice 42 o 45) del 8 settembre 1943. L’annuncio dell’armistizio, o meglio della resa dell’Italia fascista, arrivò infatti all’ora di cena e getta italiani e italiane nella gioia della possibile fine della guerra, nella speranza del ritorno di figli e mariti dal fronte e, allo stesso tempo, nella paura del domani: cosa farà l’alleato tedesco che già abbiamo in casa con le sue panzer division?
“Badoglio avrà pensato a tutto”, dicono alcune delle voci che vi faremo ascoltare dalla grande selezione di archivi su cui abbiamo lavorato. E invece è lo sbandamento: i piani preparati in caso di fine delle ostilità non vengono attuati, la monarchia pensa a salvare se stessa, i comandi militari non sono uniti, coordinati, capaci. I soldati al fronte in Grecia, Yugoslavia, Albania, Nord Africa e nelle colonie vengono abbandonati senza ordini e rifornimenti. Con le tragiche conseguenze degli eccidi di Cefalonia e in altri avamposti in Grecia e Yugoslavia e della deportazione di massa dei soldati italiani (quasi 600mila gli “internati militari”). Nelle caserme in Italia ciascuno deciderà che fare. Chi non fugge viene preso dai tedeschi già dalle prime ore del giorno specialmente nel Nord per continuare a combattere o diventare “schiavi del Reich”, lavoratori coatti.
Allo sfacelo della retorica guerriera fascista (e monarchica) fa da contrappeso il protagonismo popolare manifestatosi già il 25 luglio con la destituzione e l’arresto di Mussolini. Non tanto e solo il tumulto di piazze e paesi per dire “la guerra è finita” ma soprattutto la comprensione immediata della solitudine in cui si è stati abbandonati e del rischio della guerra gli uni contro gli altri. Per prime le donne che andarono a implorare i tedeschi di aprire i vagoni piombati con dentro i soldati, ad aprirli loro stesse, a nascondere, vestire e nutrire i fuggiaschi. La speranza, la stessa in ogni dove: “che qualcuno faccia lo stesso con i miei”. Poi le prime resistenze, con la presa delle armi nelle caserme, l’organizzazione delle reti.
Le testimonianze e i diari traboccano di queste storie esemplari: del riscatto di un popolo che si guarda allo specchio nella disfatta del proprio esercito e vede gli uomini, i padri e i figli voler tornare a casa da mogli e figlie, più che l’onta della diserzione. Senza più capi, direzione, autorità e onore si torna uomini e donne, uguali. Vale per ufficiali e soldati, per cameriere e contadine. Nelle prime ore si vedono già all’opera gli antifascisti, i pochi attivi, che provano a indirizzare le piazze verso le caserme per prendere le armi, per resistere ai tedeschi, per organizzarsi per prendere paesi e città. Porta San Paolo a Roma sicuramente è l’episodio più noto, ma anche a Bolzano, Venezia, Trieste, Vicenza, Piacenza già occupate dai tedeschi che hanno ammassato truppe nelle settimane precedenti, la Resistenza è già cominciata.
Ascolterete tutto ciò così come è stato scritto in diari, memorie, testimonianze, libri tratti dagli archivi di molti Istituti storici della resistenza (Sesto San Giovanni, Lodi, Pavia, Bergamo, Sondrio, Vicenza, Modena, Fondazione Memoria della Deportazione) oltre che dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, dai fondi della Rai e de l’Unità che in tempi diversi chiamarono a raccolta la memoria degli italiani e delle italiane per un premio letterario dedicato all’8 settembre e una trasmissione intitolata “La mia guerra”.
E vi aiuteranno a orientarvi nella storia e nel suo senso attuale, storici come Patrizia Gabrielli dell’Università di Siena e Filippo Focardi dell’Università di Padova e direttore scientifico dell’Istituto Parri, Paolo Pezzino e Sara Zanisi, presidente e direttrice generale dello stesso istituto, Angelo Bendotti, presidente dell’Isrec Bergamo e Rosangela Pesenti dell’Udi.
Tutte queste voci diventano un coro che ci offre diversi spunti su chi siamo ancora oggi, come popolo, e su come la memoria, il racconto della storia e della cultura del nostro paese abbia bisogno di essere continuamente curato, conservato, ascoltato e riproposto e questo grazie agli Istituti storici della Resistenza e alla passione di chi ci lavora e collabora. È un fatto politico che ci permette di sapere chi siamo e da dove veniamo e per chi vuole ascoltare, illumina il presente e il domani.