Giorgia Meloni non ha più alibi. Le vicende dell’ultima settimana hanno fatto cadere il velo della sua ipocrisia. Deve dire da che parte sta. O di qui, o di lì. O bianco, o nero (colore che da sempre predilige). O sinceramente all’interno di un quadro costituzionale, che riconosce le radici della nostra nazione, o patria che dir si voglia (parole a lei care), nella democrazia e nell’antifascismo (ripeto, nell’antifascismo) oppure al di fuori di questi confini. Il fatto che sia passata dallo sposare apertamente posizioni revisioniste e negazioniste sulla storia d’Italia a omissioni sulla stessa, si spiega solo con il suo attuale ruolo istituzionale. Ma politicamente, quella della presidente del consiglio non è semplice (e sarebbe già grave) reticenza. È mistificazione. La voluta dimenticanza, in occasione della commemorazione della strage di Bologna, dell’aggettivo neofascista accanto al termine terrorismo è sostanziale del suo pensiero. Che accomunando tutto in un generico terrorismo cancella e nega le responsabilità storiche, fattuali e giuridiche dell’eversione di destra nelle vicende degli anni Settanta. Così come l’appellarsi all’età anagrafica (“sono nata 30 anni dopo”) per negare di essere fascista. Lei e il suo partito sono eredi del Msi, che, appena dopo la Liberazione, nacque come portatore dell’Idea, con la I maiuscola, che, da quelle parti, ha sempre significato una cosa sola: fascismo. Ci sono poi le relazioni, strettissime, tra il partito e gli estremisti neri degli anni Settanta, in un rapporto mai fino in fondo chiarito. A chi e perché Giorgia Meloni deve rendere conto quando omette, nega o sorvola sull’antifascismo? La sua lettera al Corriere, in occasione del 25 aprile scorso, è la summa del suo pensiero. Una surreale mistificazione della realtà storica del nostro paese negli ultimi 80 anni. Inaccettabile per chi, come lei, questo paese lo governa.
Revisionismo: Giorgia Meloni non ha più alibi
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Redazione