Nell’ultimo anno, sulla scena internazionale sono state confermate alcune tendenze e si sono affacciate nuove questioni. L’affanno per l’uscita dalla pandemia è stato prolungato dal conflitto ancora in corso in Ucraina: un fallimento militare dal punto di vista della Russia, che non ha raggiunto nessuno degli obiettivi annunciati al momento dell’invasione. La Crimea non è in sicurezza, i territori del Donbas sono ancora in bilico e il governo di Kiev è saldamente insediato. L’onda lunga del conflitto si è però abbattuta con forza anche molto lontano dallo scenario bellico. La sicurezza alimentare dell’Africa continua a essere in pericolo, l’inflazione dovuta all’aumento del prezzo delle materie prime preoccupa soprattutto l’Europa. E il mondo si è diviso in due, non tanto sull’interpretazione del casus belli, quanto sul come uscire dalla guerra. I Paesi della NATO, guidati nel conflitto da Stati Uniti e Regno Unito, hanno scommesso sulla vittoria di Kiev; i Paesi del Sud globale fin dal primo momento si sono posti come priorità la ricerca del dialogo tra le parti, ritenendo che non fossero possibili vittorie nette sul campo. L’Organizzazione degli Stati Africani, il Brasile di Lula e l’India di Narendra Modi, la Cina e addirittura il Vaticano da mesi fanno la spola tra Russia e Ucraina per provare a far ripartire il dialogo.
Nel frattempo, lo stallo ha confermato diverse cose che si potevano intuire da tempo. La prima è che i conflitti post-Guerra Fredda hanno forse una minore capacità distruttiva globale, ma sono più complicati da risolvere a causa del forte intreccio tra i diversi Paesi che si è creato nell’economia globale. La Russia non è più l’Unione Sovietica, che poteva contare sulla “sua” metà del mondo e, soprattutto, non dipendeva dai rapporti economici con l’Occidente; e i Paesi occidentali non possono più pensare di dettare linea al resto del mondo pretendendo un allineamento che nei fatti non esiste più. Il G7 è ormai depotenziato, ma il G20 non è ancora il suo successore. Prevale la competizione tra i diversi blocchi che aspirano ad avere le stesse armi, tecnologiche ed economiche, per affermarsi. I campi sui quali va in scena questo nuovo confronto sono quelli delle materie prime strategiche, come le terre rare e il litio, ma anche l’acqua e i beni alimentari, sui quali da anni sta investendo la Cina. Su questo fronte l’Occidente è impreparato, avendo basato il suo storico dominio sulla forza militare e tecnologica.
L’obiettivo evidente dei tanti Paesi che vorrebbero entrare nel gruppo dei BRICS è fare una scelta di posizionamento rispetto al nuovo bipolarismo che si va delineando. Nel suo discorso al “summit” per la nuova finanza, tenutosi a Parigi il 22-23 giugno, Lula ha chiesto il superamento degli Accordi di Bretton Woods che disegnarono l’economia mondiale del dopoguerra, e di conseguenza il ridimensionamento del dollaro statunitense quale moneta mondiale. Su questo fronte le armi non servono: serve invece la politica, una dimensione abbandonata da molto tempo.
In qualche modo l’estate del 2023 sancisce la fine del lungo periodo inaugurato dalle cannoniere che in epoca vittoriana piegarono l’Asia e l’Africa, e in America dalla “politica del cortile di casa” attuata da Washington nei confronti dell’America Latina. Le distanze restano siderali, è evidente, ma l’interdipendenza tra Stati e continenti è arrivata a un livello tale da non lasciare spazio per operazioni “fuori dal sistema”. Nei prossimi mesi la capacità di fare buona politica sarà cruciale per chiudere il conflitto in Europa, disinnescare le tensioni nel mar della Cina e, soprattutto, affrontare il tema del cambiamento climatico, applicando le misure necessarie ad arginarlo e a farci convivere con le sue conseguenze: è la priorità numero uno del pianeta Terra. In caso contrario, la paralisi attuale può lasciare spazio solo a un peggioramento della situazione. Un orizzonte per il quale però il tempo è scaduto, e da molto.