Il 18 aprile 1973 arrivava nelle strade francesi un nuovo giornale che parlava direttamente alla sinistra sessantottina: Libération. Il quotidiano aveva tra i suoi padri e padrini il filosofo Jean-Paul Sarte, che in un’epoca in cui si rischiava di scivolare verso una critica al potere fatta con le armi, preferì affidarsi alle armi della critica. Uno dei cofondatori, e suo direttore per più di 30 anni, fu il giornalista Serge July. Oggi che Libé compie 50 anni ed è diventato un giornale iconico nel mondo, lo abbiamo intervistato per chiedergli come nasce Libération e perché?
Libération è stato un figlio del ’68. Ma ci sono stati altri figli del 68, altri giornali. Quando un evento storico segna una generazione, nascono sempre dei giornali o altri media. Contemporaneamente a Libération è nato Harakiri Hebdo, da cui poi è nato Charlie Hebdo, Le Quotidien de Paris…Ci furono altri tentativi, fallimentari, ma c’era il bisogno di avere una stampa che corrispondesse alla generazione che aveva 20/30 anni nel 68 e che in quel momento non trovava, nei quotidiani, le informazioni e le riflessioni che cercava.
All’inizio, Libération è un’agenzia stampa, creata dallo scrittore gollista Maurice Clavel con delle persone di estrema sinistra. Si chiamava APL: Agence de Presse Libération. Nasce già all’epoca per colmare un vuoto e prende il nome da una rete di resistenti durante l’occupazione tedesca. L’APL ebbe un certo successo e da lì è nata l’idea di fare un quotidiano, una riflessione su che strumenti tecnici usare e su come finanziarlo.
Sono molto contento che questo giornale esista 50 anni dopo. Quando lo abbiamo lanciato non vedevamo così lontano. E sono felice di averlo diretto per 33 anni. Creare una squadra non è facile perché non vuol dire solo assumere delle persone ma creare un corpo che ha dei riflessi comuni, delle discipline e delle abitudini comuni. Ce l’abbiamo fatta ed è stato una delle chiavi del successo di Libération.
Come si potrebbe definire un giornale come Libération, che noi all’estero conosciamo come un giornale di sinistra, certo, ma anche grazie al modo in cui occupa lo spazio mediatico con le sue prime pagine, il ritratto di chiusura, i suoi titoli e i giochi di parole?
Un giornale che ha 50 anni, e in 50 anni succedono davvero un sacco di cose, non è così facile da definire. Avevo inventato una formula, che vale quello che vale, definendolo liberale-libertario. Un giornale che si occupa dell’attualità sociale e culturale. Più sociale che politico-politica. Sono due definizioni che possono sembrare riduttive ma per me sono fondamentali. Per quanto riguarda il ritratto, è una rubrica che esiste da 40 anni e che nasce da una questione filosofica centrale del 68: quella dell’individualismo. Più in generale, l’attualità culturale era ed è ancora uno dei pilastri di Libération e una parte del successo del giornale è legato al modo in cui trattiamo le questioni di società e di cultura. Senza tutto ciò, Libération non potrebbe esistere.
Lei ha anche dato il via alla “rifondazione” degli anni ’80, che oltre ad essere l’epoca d’oro di Libé sono anche gli anni della presidenza Mitterrand. Come gestisce, un giornale di sinistra, la relazione con un potere di sinistra?
Mi sono sempre sentito molto libero rispetto a Mitterrand, che del resto non apprezzava molto questa libertà. È normale: siamo un giornale non un Club di amici del potere socialista. Siamo stati molto critici su molti aspetti. È il ruolo della stampa e per me è sempre stato chiaro. La cosa ha provocato non poche tensioni con i dirigenti socialisti. Prendo un esempio personale: nell’83 in Francia c’è stata una “svolta dell’austerità economica”. In periodo di elezioni municipali, con la sinistra che aveva subito delle sconfitte severe, avevo fatto un’inchiesta per raccontare che Mitterrand, Laurent Fabius e tutta una parte del partito socialista preparavano una svolta anti-europeista. Raccontare quello che succedeva dietro le quinte, all’Eliseo eccetera, ha senz’altro contribuito al fallimento di questo tentativo. E, ve lo assicuro, la cosa ha fatto arrabbiare parecchia gente.
Da gennaio, una volta a settimana, ha ripreso a scrivere degli editoriali per Libé, che aveva lasciato nel 2006. In quanto osservatore della società francese da oltre 50 anni, cosa pensa della Francia di oggi?
È una società molto tesa. Attraversa evidentemente una crisi politica importante che coinvolge sia le istituzioni che la pratica del potere politico. La democrazia francese nel suo complesso funziona male. Lo vediamo ogni giorno. Quest’anno festeggiamo i 50 anni di Libération ma anche i 75 anni della Costituzione della quinta Repubblica ed è evidente che la tensione sulle istituzioni è fortissima. Che le cose non funzionano. A tutto ciò si aggiunge il fatto che, quando il presidente Macron si è candidato, a molti è sembrato la persona in grado di rinnovare il sistema politico, il modo di fare politica. Ci si aspettava molto da lui e oggi la società francese è molto delusa. Per la sua prima campagna aveva scritto un libro intitolato “rivoluzione” e la rivoluzione, almeno quella che diceva di voler fare, non c’è stata. Quindi c’è molta delusione, un malessere sociale. Lo vediamo durante le manifestazioni ma del resto le proteste ci sono in molti paesi.
A proposito delle proteste, come pensa che si siano evolute in questi anni?
Come la società evolve, è normale che le cose non si ripetano in modo identico. Ma, come dire, nel 68 ho visto delle situazioni più violente rispetto ad oggi. Ce lo dimentichiamo, il fatto che ci fosse più violenza di quella di oggi, in alcuni contesti. Ma non vuol dire che oggi sia meglio di allora. C’è molto malessere e quando c’è malessere c’è anche parecchia confusione.
E per quanto riguarda il Rassemblement National, pensa che oggi sia visto in modo diverso, in Francia?
Beh, buona parte dell’elettorato comunista è andata da Marine Le Pen, all’estrema destra. Non succede solo in Francia ma in Francia è successo. È complicato sul piano della riflessione politica perché oggi molti vecchi elettori e militanti comunisti sono militanti se non dirigenti del Front National. Quelle che chiamiamo classi più popolari sono attirate dal Front National. È una dimensione nuova nella società francese vedere una parte della sinistra andare verso ed essere attirata dall’estrema destra. Se capisco bene, anche in Italia c’è un fenomeno di questo tipo. Io, anche a titolo individuale, mi batto contro il Rassemblement National ma fa riflettere il modo in cui l’elettorato comunista si è spostato verso l’estrema destra. Questa è una cosa su cui dobbiamo riflettere. A Libération ne parliamo non perché siano i nostri lettori, non lo sono, ma perché è un fatto che la prima forza politica francese è il Rassemblement National. È un fenomeno che ci riguarda tutti. È un problema complicato da gestire per il presidente Macron ma tutte le forze politiche sono scosse da questa svolta di una parte dell’elettorato di sinistra che ha integrato i battaglioni dell’estrema destra. Ed è qualcosa che fa riflettere sull’epoca in cui viviamo. Sul perché oggi, in tutto il mondo, attirino tanto i regimi autoritari. Alcuni tra i più autoritari fanno sognare. Mi sembra una questione importante