Sono passati 15 anni dalla fine dell’ultimo sciopero degli sceneggiatori hollywoodiani, ma soprattutto chi già all’epoca seguiva le serie televisive se ne ricorda bene: per 100 giorni, tra il 2007 e il 2008, gli scrittori posarono le penne e chiusero i laptop, fermando la lavorazione di gran parte delle serie tv e anche di molti film.
È per questo che, a scorrere gli elenchi degli episodi, si scopre che le serie in onda nel 2008 hanno stagioni molto più brevi – e delle novità che erano in preparazione in quei mesi non sapremo mai nulla perché furono direttamente cancellate. E ora la storia si ripete: dal 2 maggio la WGA, la Writers’ Guild of America, il sindacato che raccoglie oltre 10 mila autori, è in sciopero (uno sciopero votato e sostenuto dal 97% dei suoi membri).
Negli Stati Uniti si sono già fermati tutti i Late Show, cioè i talk della seconda serata, che alternano monologhi dei presentatori e interviste con ospiti, e anche il Saturday Night Live, e iniziano ad arrivare la prime notizie dai set di serie in lavorazione: le attese seconde stagioni di House of the Dragon e Il signore degli Anelli: Gli Anelli del potere, per esempio, hanno deciso di proseguire le riprese anche senza la presenza degli showrunner, comunicando che la scrittura dei copioni era già in fase sufficientemente avanzata da poter fare a meno di ulteriori ritocchi.
La quinta e ultima stagione di Stranger Things, invece, ha bloccato la produzione appena cominciata, e lo stesso vale per altri show molto apprezzati negli ultimi tempi, come la sitcom Abbott Elementary, l’antologica American Horror Story, l’appassionante Yellowjackets. Ma rispetto al famoso sciopero del 2007-2008 il panorama dell’industria cinetelevisiva è profondamente cambiato, ed è proprio questa la ragione per cui gli sceneggiatori stanno incrociando le braccia – e il motivo per cui l’esito della mobilitazione è del tutto incerto.
L’arrivo delle piattaforme streaming e le mega fusioni tra corporation dell’intrattenimento hanno contemporaneamente moltiplicato in modo esponenziale la quantità di serie scritte e prodotte, e reso più precario, meno a lungo termine e meno pagato il lavoro degli sceneggiatori: le stagioni televisive sono ormai di media molto più brevi, sugli 8 o 10 episodi, rispetto allo standard di un tempo, che vedeva 22 episodi ad annata, e meno puntate da scrivere significa meno stipendio.
È sempre più diffusa la pratica delle mini-room, cioè stanze degli sceneggiatori più piccole, con meno lavoratori e meno tutele. Inoltre, si sono enormemente ridotti i residual, cioè le compensazioni monetarie che gli autori ricevevano successivamente alla prima messa in onda delle puntate da loro scritte, grazie alle repliche, alle uscite in home video, alle distribuzioni estere: era su quelle che si basava principalmente la sopravvivenza degli sceneggiatori tra un impiego e l’altro, ma ora la maggior parte delle serie vanno direttamente in streaming, che dà residual ridottissimi (una sceneggiatrice ha scritto su Twitter di aver ricevuto 12mila dollari di residual dalla sua prima serie scritta per un network tradizionale, e solo 4 dollari dal suo primo show scritto per lo streaming).
È stato calcolato che, aggiustando i dati all’inflazione, il compenso medio di uno sceneggiatore televisivo è diminuito del 23% negli ultimi anni, e tutto questo mentre gli introiti dei dirigenti delle grandi conglomerate streaming, quotate in borsa e sempre più vicine alle dinamiche dei giganti finanziari, s’innalzavano a cifre esorbitanti. Su tutto, poi aleggia la paura delle intelligenze artificiali: in un panorama già dominato dai diktat degli algoritmi, è già stata ventilata la possibilità di sostituire gli scrittori con programmi informatici come ChatGPT.
La WGA, durante le negoziazioni pre sciopero, ha chiesto agli studios di certificare che non avrebbero usato questi programmi per sostituire gli sceneggiatori, ma gli studios hanno rigettato la richiesta, offrendo in cambio solo dei “corsi di aggiornamento sulle nuove tecnologie”. Dunque, sciopero: da giorni si susseguono picchetti e proteste davanti agli studios e alle sedi delle piattaforme, con diversi attori e registi che manifestano in solidarietà con i colleghi sceneggiatori. Ma è una lotta che si preannuncia lunga e incerta, anche perché soprattutto le piattaforme streaming sono ormai abituate ad acquistare i loro contenuti in giro per il mondo e, almeno per un po’, potrebbero fare a meno di quelli americani.
La questione, però, riguarda pure, e moltissimo, anche noi spettatori: a chi fa bene un panorama d’intrattenimento audiovisivo gestito da algoritmi e da dirigenti di multinazionali interessati solo alle quotazioni in borsa?