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Lidia Poet & Django, un periodo felice per la serialità italiana

Django Sky Serie

È un periodo felice per la serialità italiana, soprattutto quella che guarda a modelli e generi internazionali (anche se pure quella pienamente nostrana non se la passa male, basta pensare al successo di Mare fuori, di cui questa settimana parte su Rai2 la terza attesa stagione). Su Sky Atlantic, dopo la presentazione lo scorso autunno alla Festa del cinema di Roma, arriva il 17 febbraio Django: La serie, un progetto originale Sky co-prodotto con la divisione britannica della rete e con la francese Canal+.

Prende le mosse, naturalmente, dal cult movie western del 1966 di Sergio Corbucci, quello con protagonista l’eponimo pistolero interpretato da Franco Nero, già rivisitato anche in epoca contemporanea da molti cineasti, tra cui il giapponese Takashi Miike con Sukiyaki Western Django e lo statunitense Quentin Tarantino con Django Unchained.

Nella nuova serie, scritta da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, e con Francesca Comencini produttrice artistica e regista di quattro episodi, è l’attore belga Matthias Schoenaerts (già noto per i tanti ruoli cinematografici, per esempio in Un sapore di ruggine e ossa e Red Sparrow) a indossare i panni del protagonista. Ma Django: La serie dal film di Corbucci prende solo ispirazione per raccontare una storia nuova, anche nello stile, e intrecciare i destini di molti personaggi: si svolge nel tardo Ottocento nella fittizia New Babylon, una città fondata dopo la fine della Guerra civile in Texas, da ex persone schiavizzate ora libere, decise a edificare un porto sicuro per accogliere chiunque ne abbia bisogno.

Django ci arriva in cerca della figlioletta perduta molti anni prima, ma nel frattempo, da una vicina città di bianchi benestanti, partono le spedizioni punitive della “Signora”, una donna potente, spietata e iper religiosa, decisa a distruggere New Babylon, identificata come ricettacolo peccaminoso e pericoloso esperimento sociale. Una villain inquietante e insolita, interpretata da Noomi Rapace, la ex Lisbeth Salander della versione svedese di Uomini che odiano le donne.

Un’eroina, per quanto non esattamente immacolata, è invece la protagonista della seconda nuova serie italiana in arrivo questa settimana: è Lidia Poët, la prima donna a laurearsi in giurisprudenza in Italia, nel 1881. In La legge di Lidia Poët, che sbarca su Netflix il 15 febbraio, la interpreta la bravissima Matilda De Angelis, ma non pensate a un classico show biografico, magari al confine con l’agiografia. Prodotta dalla compagnia Groenlandia di Matteo Rovere – la stessa di Romulus, Il primo re e Smetto quando voglio –, mescola la rievocazione storica della Torino ottocentesca all’investigazione e a un pizzico di commedia, trasformando Lidia Poët in una sorta di Sherlock Holmes al femminile, o a una Signorina in giallo d’altri tempi.

Nonostante la laurea, a Lidia viene impedito di esercitare la professione legale, ma lei non demorde: collabora col fratello avvocato e con un giornalista, investigando su casi apparentemente disperati, riuscendo a vedere oltre i pregiudizi e spesso scagionando innocenti ingiustamente accusati. Il risultato è una serie che si avvicina a una dimensione procedurale, cioè con un caso da risolvere in ogni episodio, mentre porta avanti una linea narrativa orizzontale, di puntata in puntata. Girata, appunto, in una Torino che verrebbe da definire “vittoriana”, guarda più all’intrattenimento che alla verosimiglianza storica, anche se i tratti essenziali della biografia della vera Lidia Poët sono rispettati, e – per esempio – è letta pari pari l’assurda motivazione con cui la giovane avvocata viene radiata dall’albo in quanto donna, e dunque non considerata in grado di esercitare la professione, perché sarebbe inappropriato per una signorina frequentare i tribunali, perché con la sua presenza distrarrebbe i maschi, perché sarebbe troppo preda dell’emozione e incapace di razionalità, e così via.

Nella realtà Lidia Poët non venne ufficialmente riaccolta nell’albo degli avvocati fino al 1920, 39 anni dopo essersi laureata; nel frattempo, però, lavorò davvero insieme al fratello e si spese soprattutto per la difesa dei diritti dei minori e delle donne, e a sostegno del suffragio universale. La sua battaglia, molto seguita dai giornali dell’epoca, contribuì al dibattito collettivo sull’emancipazione femminile e sull’accesso delle donne anche alle professioni fino a quel momento esercitate esclusivamente dagli uomini.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Il femminicida non è un malato, ma un figlio sano del patriarcato, cresciuto in una cultura che considera la donna un essere inferiore. Da proteggere, sminuire, controllare, e nei casi più estremi, da picchiare o uccidere. In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa, spesso per mano di chi dovrebbe amarla. E oltre agli omicidi, un sommerso di violenze – dal catcalling alla violenza psicologica – pesa sulle donne, mentre la società si interroga troppo poco sulle sue responsabilità. Da questa riflessione nasce il progetto ideato dal Teatro Carcano, scritto da otto autori uomini e interpretato da Alessio Boni e Omar Pedrini, un viaggio nella mente del carnefice per analizzare il retaggio culturale che alimenta la violenza di genere. Inaugurato il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, lo spettacolo è un atto di autocoscienza collettiva che punta a smantellare le radici patriarcali della nostra cultura. Ospite a Cult, Alessio Boni ne ha parlato con Ira Rubini.

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