C’è un problema nella nuova stretta britannica sulle proteste di strada e gira tutto in intorno alla definizione di “grave disturbo”. Il comunicato di Downing Street ha speso ben poche parole per spiegare il nuovo emendamento al Public Order Bill, limitandosi a dire che in questo modo la polizia avrà “maggior flessibilità e chiarezza sui tempi e i modi di intervento” davanti a proteste considerate – appunto – di “grave disturbo”.
Quando si troverà davanti ad una protesta di questo tipo, la polizia potrà agire anche prima dell’effettivo compimento del cosiddetto disturbo, e muoversi quindi in modo preventivo. In più, non dovrà più considerare ogni singola manifestazione di uno stesso gruppo nella sua individualità, ma potrà analizzarne l’impatto generale. Questo significa che se i gruppi di attivisti climatici Extinction Rebellion o Just Stop Oil – perché è su di loro che questa legge è stata disegnata – sono noti per le loro azioni radicali (come bloccare le strade o incatenarsi a edifici simbolici) la polizia potrebbe potenzialmente bloccare le loro proteste ben prima che queste avvengano.
“Il diritto alla protesta è un principio fondamentale della nostra democrazia” ha detto il premier Rishi Sunak, “ma non è assoluto. Non possiamo permettere che una piccola minoranza conduca manifestazioni che creano un così grande disagio al pubblico”.
La stretta del governo britannico è arrivata dopo una serie di manifestazioni del gruppo Just stop Oil che a novembre, per diversi giorni, ha bloccato la M25, la tangenziale londinese che è anche la strada più trafficata del Regno Unito, impedendo il passaggio anche di ambulanze e vigili del fuoco.
Il leader dell’opposizione laburista Keir Starmer ha detto che nonostante non approvi i metodi di Just Stop Oil, la polizia non ha bisogno di un ampliamento dei propri poteri, perché già la legge fornisce loro gli strumenti per agire. “La mia paura – ha detto alla BBC l’ex direttrice dell’ong Liberty Shami Chakrabarti – è che ogni dissenso pacifico, venga trattato come terrorismo”.
Ampliare i poteri della polizia in questo senso, invece di formare gli agenti dal punto di vista legislativo, rischia di rappresentare un pericoloso precedente.
E qui si ritorna al problema linguistico, che rischia di essere non tanto di forma quanto sopratutto di sostanza. Che cosa significano le parole “serio”, “disturbo” o “disagio”? Non è insito nel concetto di protesta quello di creare un disagio? Senza una definizione chiara di questi concetti, tutto viene lasciato in mano al giudizio degli agenti, che più di una volta hanno dimostrato se non malafede, quantomeno di essere mal equipaggiati nel giudicare cosa è pericoloso e cosa no.
Era pericolosa la veglia organizzata per Sarah Everard, la ragazza scomparsa nel centro di Londra, uccisa proprio da una agente della Metropolitan Police? No, non lo era. Lo ha stabilito la stessa Corte Suprema, dando ragione al gruppo di attiviste Reclaim These Streets. Eppure quel giorno di due anni fa la polizia intervenì violentemente per fermare la veglia, arrestando diverse ragazze, bloccandole a terra senza nessuna ragione che giustificasse un’azione di questo tipo.
Le persone hanno il diritto di non diventare vittime di proteste e allo stesso tempo i cittadini hanno il diritto di protestare e di manifestare il loro dissenso. Il punto è trovare l’equilibrio tra due libertà che solo apparentemente sono in contrasto l’una con l’altra. Ma questa è un’operazione analitica delicata che non può essere condotta in modo sbrigativo da un agente non adeguatamente formato né tanto meno eticamente imparziale, perché il rischio è che un semplice problema di definizione linguistica si trasformi presto in un sostanziale problema di libertà di espressione.