Il racconto della giornata di lunedì 9 gennaio 2023 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30. Il giorno dopo l’assalto alle istituzioni brasiliane da parte dei sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro, la polizia ha arrestato 1.200 persone che si trovavano nell’accampamento montato da oltre due mesi di fronte al quartier generale dell’esercito di Brasilia. In Ucraina la zona di Bakhmut è il simbolo di una guerra ancora lontana da una conclusione. Russi e ucraini combattono da mesi: la linea del fronte si sposta, ogni volta, di poche centinaia di metri. Il governo italiano prova ad uscire dal ginepraio in cui si è infilato sui carburanti, tanto più che si tratta di un cavallo di battaglia della destra e di Salvini in particolare. A Milano, intanto, prima giornata col biglietto dei mezzi pubblici più caro di 20 centesimi e la riduzione del 3% del servizio stesso.
1.200 arresti in Brasile per l’assalto alle istituzioni
Il giorno dopo l’assalto alle istituzioni brasiliane da parte dei sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro, la polizia ha arrestato 1.200 persone che si trovavano nell’accampamento montato da oltre due mesi di fronte al quartier generale dell’esercito di Brasilia.
Il presidente Lula, tornato nel palazzo presidenziale dove ha ripreso a lavorare, ha definito gli assalti ‘atti terroristici, vandalici e golpisti’, mentre Bolsonaro, che ha rigettato le accuse di essere dietro all’attacco, è stato ricoverato per forti dolori addominali in un ospedale in Florida, dove era andato pochi giorni prima del termine del suo mandato.
Dagli Stati Uniti sono già arrivate le prime richieste da parte dei democratici per la sua estradizione, ma il consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan ha detto di non aver ricevuto nessuna richiesta ufficiale dal Brasile.
Con il ritorno della calma nella capitale brasiliana, intanto, sono iniziati i lavori per valutare i danni provocati al palazzo presidenziale, al Congresso e alla Corte Suprema e secondo gli esperti il valore sarebbe “incalcolabile”. A Brasilia abbiamo raggiunto il giornalista Federico Nastasi:
Intanto da tutto il mondo sono arrivate le condanne per quanto accaduto. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha detto che “la volontà del popolo brasiliano e le istituzioni
devono essere rispettate”.
Le blande condanne del governo italiano per l’assalto in Brasile
In questo contesto si fanno notare le blande e generiche condanne del governo italiano e, soprattutto, il silenzio di Matteo Salvini, che con Bolsonaro ha sempre avuto uno stretto rapporto.
(di Luigi Ambrosio)
Si può capire che in effetti qualche latta di vernice sul portone del Senato tirato da alcuni giovani militanti per il clima faccia più impressione che un tentato golpe in Brasile, ai nostri politici, così ombelicali e provinciali.
Ma stridono davvero il clamore, le urla mediatiche, le indignazioni con cui solo pochi giorni fa i politici italiani hanno reagito all’azione di Ultima Generazione a Roma, comparati ai silenzi e alle ambiguità che hanno accompagnato l’assalto ai palazzi delle Istituzioni a Brasilia da parte dei bolsonaristi.
A cominciare naturalmente da chi occupa posizioni di potere. A cominciare, quindi, da Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio prima ha pensato che bastasse ritwittare un tweet del ministro degli Esteri. Poi devono averle detto che no, non bastava e allora ha twittato lei. Poche righe in cui è riuscita a non nominare mai Bolsonaro. Ha parlato, Meloni, di azione incompatibile con il dissenso democratico. A dire il vero era un tentato golpe.
E Salvini, il grande amico di Bolsonaro? Stamattina Salvini ha pubblicato la foto di se stesso all’ospedale dove è andato a donare il sangue. Foto che è subito diventata un meme perché si vede un sanitario che fa un gesto inequivocabile con una mano.
E Berlusconi? Non pervenuto. Ormai Berlusconi si sveglia solo quando si tratta di elogiare la Russia di Putin, il quale tra parentesi a Bolsonaro aveva recentemente fatto i complimenti per gli ottimi rapporti tra Mosca e Brasilia.
E mentre pure la Rai è sotto accusa, dal sindacato Usigrai che denuncia il ritardo con cui la notizia è stata coperta, da destra hanno provato a difendere i leader dalle critiche. I leghisti affermano che da parte loro la condanna è stata tempestiva. Il ministro della Giustizia Sangiuliano afferma che le parole di Meloni sono state nette.
Verità alternative, le aveva definite uno che è un loro punto di riferimento, Donald Trump.
Il faccia a faccia tra Meloni e von der Leyen
(di Anna Bredice)
Una nota da Bruxelles e una da Roma, toni concilianti e nello stesso tempo un po’ generici sull’incontro che è avvenuto oggi a Palazzo Chigi tra Giorgia Meloni e la presidente della Commissione von der Leyen. Uno dei punti forti del colloquio è stato il Pnrr, in particolare i 149 obiettivi da raggiungere quest’anno per ottenere i 38 miliardi previsti e a questo riguardo, se da parte dell’Unione europea si può discutere del fatto che aumentando il costo delle materie prime si deve rivedere anche l’ammontare complessivo dei fondi che arriveranno, sulla tempistica e sulla necessità di non derogare agli impegni e alle riforme già garantite da Draghi la Commissione non transige. Un incontro quello di oggi che segue il primo avvenuto troppo a ridosso dell’insediamento del primo governo di destra in Italia, con l’eco della campagna elettorale sovranista di Salvini e Meloni. A distanza di qualche mese le due interlocutrici hanno potuto forse studiarsi meglio. Nella nota di von der Leyen si specificano in maniera molto secca i temi discussi come fosse un elenco di obiettivi da raggiungere, senza deroghe: continuare a sostenere l’Ucraina, garantire un’energia sicura e accessibile, fare progressi sul patto dell’immigrazione e l’implementazione del Pnrr. Sulla posizione filo atlantica di Giorgia Meloni non ci sono dubbi, ma il sesto decreto aiuti all’Ucraina ancora non arriva in Parlamento. L’immigrazione sconta ancora lo scontro con la Francia, la linea dura di Roma nel pretendere di cambiare gli accordi sulla distribuzione dei migranti non ha provocato nessun cedimento ancora a Bruxelles, il 9 e il 10 febbraio nel Consiglio europeo si discuterà nello specifico anche delle nuove norme sulle Ong, per ora l’Unione europea ribadisce che vale il diritto del mare, ma sulla richiesta di asilo anche a bordo delle navi si è mostrata meno dura. Sullo sfondo ci sono le elezioni europee del 2024 con nuovi possibili equilibri: Giorgia Meloni se sarà ancora al governo dovrà cercare nuove alleanze, allontanandosi dai sovranisti ungheresi e dei paesi del Nord Europa che in tema di solidarietà hanno chiuso le porte al governo degli amici Salvini e Meloni.
Lo scaricabarile sull’aumento dei prezzi dei carburanti
(di Massimo Alberti)
Il governo prova ad uscire dal ginepraio in cui si è infilato sui carburanti, tanto più che si tratta di un cavallo di battaglia della destra e di Salvini in particolare, quello delle accise, e non a caso è stato proprio il leader della Lega ad annunciare possibili interventi, forse. Perché vanno innanzitutto trovati quei soldi che in manovra si è deciso di mettere su altro, scommettendo che, come accaduto dopo il primo taglio allo sconto, quello di 12 centesimi a inizio dicembre, il prezzo sarebbe comunque rimasto basso. Invece le compagnie petrolifere hanno tirato un brutto scherzo al governo con aumenti che vanno ben oltre i 18 centesimi scaduti a fine dicembre, ed in molti casi dei 30 complessivi dello sconto originario, recuperando tutto con gli interessi. Innescando lo scaricabarile per darsi la colpa di fronte a cittadini infuriati. La fine dello sconto – al netto appunto delle scelte di politica economica – prima o poi era inevitabile senza interventi strutturali, le associazioni chiedono da tempo un intervento sull’Iva. Ma la scelta dei tempi – in piena crisi inflattiva dovuta proprio ai costi dell’energia, e di fronte all’incertezza economica del 2023 – è stata perlomeno sconcertante ed al limite del dilettantismo. Non solo per il peso appunto sul sistema produttivo, non solo per il peso sulle fasce più deboli, i carburanti sono la tipica spesa incomprimibile se si è costretti all’uso dell’auto e al pendolarismo in determinate zone, ma anche per come si rifletterà sugli altri beni e di conseguenza sull’inflazione, già più alta in Europa proprio a causa delle politiche sui beni energetici.
Ucraina, intensi combattimenti nell’area di Bakhmut
(di Emanuele Valenti)
La zona di Bakhmut è il simbolo di una guerra ancora lontana da una conclusione. Russi e ucraini combattono da mesi. La linea del fronte si sposta, ogni volta, di poche centinaia di metri.
Negli ultimi giorni la pressione russa è aumentata. Lo confermano le notizie che arrivano oggi dalla città: strade deserte e alcuni centri di supporto per i pochi civili rimasti ormai chiusi.
La pressione russa è particolarmente forte a Soledar, pochi chilometri a nord-est di Bakhmut, dove i mercenari del gruppo Wagner starebbero cercando di prendere il palazzo dell’amministrazione locale.
Sulla carta la conquista della zona di Bakhmut permetterebbe ai russi di puntare su Sloviansk e Kramatorsk, le due principali città del Donbass ancora in mano ucraina.
Ma nelle ultime settimane e negli ultimi mesi, proprio grazie alla resistenza nelle trincee di Bakhmut, gli ucraini hanno permesso l’arrivo di armi occidentali e costruito fortificazioni e barriere difensive. Per i russi l’eventuale caduta della città sarebbe quindi soprattutto simbolica, strategicamente non così importante. Vale per il Cremlino, che ha estremo bisogno di notizie di questo tipo a uso interno, e vale per i miliziani del gruppo Wagner, che puntano a guadagnare visibilità e potere a Mosca.
A proposito di armi occidentali, da seguire con attenzione quello che potrebbe decidere la Gran Bretagna, e cioè l’invio di carri armati a Kiev. I media di Londra dicono che una decisione è imminente. Nel caso questo potrebbe spingere altri Paesi, soprattutto la Germania, a fare lo stesso.
A Milano primo giorno col biglietto dei mezzi pubblici più caro
(di Fabio Fimiani)
Si intrecciano tanti elementi nell’aumento del biglietto dei trasporti pubblici di Milano, ma non degli abbonamenti, e la riduzione del 3% del servizio stesso.
Innanzitutto il caro energia, con le sue ripercussioni sull’inflazione, la tassa dei poveri. L’incremento dei costi della mobilità pubblica, ovviamente, colpisce di più i redditi bassi.
I trasporti post Covid sono cambiati in città, più auto e più bici, e molto meno metropolitane, tram, filovie e bus, ancora sotto del 20/25%.
La ripresa del loro uso, nell’ultimo trimestre 2022, è anche stata superiore alle previsioni, ma è ancora ampiamente al di sotto all’arrivo del Covid. E la pandemia è ancora presente, benché in forma non paragonabile a 2020 e 21. I timori di diffusione attraverso i mezzi pubblici rimangono, anche se l’uso della mascherine non è così elevato come ci si potrebbe immaginare.
Questa situazione riduce la sostenibilità, che non è solo qualità ambientale, ma anche sociale. E Milano punta questi aspetti, anche se i recenti report hanno registrato un arretramento rispetto ad altre città italiane.
La città, però, non è supportata dalla Regione, che da parte sua, già a settembre, ha aumentato, sempre per il caro energia, biglietti e abbonamenti su Trenord. Non una società modello, nonostante i notevoli investimenti sul sistema ferroviario. Il federalismo dei binari degli ultimi venti anni ha replicato i disservizi del gruppo Ferrovie dello Stato.
Palazzo Lombardia in questi anni ha pure tagliato i trasferimenti per il trasporto pubblico di Milano, nonostante l’incremento di servizi come le linee 4 e 5 della metropolitana.
Il consiglio regionale ha votato una legge che ha tolto a Milano la maggioranza dell’Agenzia di Bacino del trasporto pubblico locale Milano-Monza-Pavia-Lodi.
La mancata collaborazione istituzionale per la mobilità assomiglia a quella della case popolari, dove il disastro Aler si ripercuote sugli abitanti di quei quartieri di Milano e della città metropolitana.
La politica è risolvere i problemi, non esasperarli. La campagna elettorale continua, compreso l’uso delle istituzioni e delle aziende pubbliche, è irrispettosa dei più deboli, che finge di tutelare. Inoltre i danni non si limitano ai confini amministrativi, che per altro sono quotidianamente varcati da centinaia di migliaia di non milanesi.
La farsa del risveglio delle coscienze nel calcio italiano
(di Guglielmo Vespignani)
Gli ululati razzisti dei tifosi della Lazio contro i giocatori del Lecce Umtiti e Banda sono l’ennesima pagina della farsa del risveglio delle coscienze nel calcio italiano: la società che condanna i suoi ultras, dichiaratamente di estrema destra; i partiti politici, come la Lega, che chiedono misure più rigorose, dimenticando che il loro leader nonché ministro Salvini, nel 2014, aveva invitato i partecipanti dei Mondiali Antirazzisti a portare i clandestini a casa dopo le partite; il presidente dell’associazione calciatori Calcagno che chiede di fare chiarezza, su fatti che sono già, purtroppo, molto chiari.
E i fatti sono che il razzismo nel calcio italiano è un problema strutturale, nel senso più stretto del termine. Lo dimostra la prima decisione presa in merito nel 2022: la sconfitta a tavolino del Saragozza, squadra di terza categoria Emilia – Romagna, che a novembre 2021 aveva deciso di lasciare il campo dopo il “negro di merda” di un avversario a uno dei suoi giocatori. L’autore dell’insulto fu squalificato per 10 giornate, ma a febbraio il ricorso contro la sconfitta a tavolino fu respinto. Un segnale chiaro: prima viene il risultato sportivo, poi tutto il resto.
Con un tale clima anche nei tribunali sportivi – quelli, ricordiamo, dove si dovrebbe far giustizia – non c’è da stupirsi che le cronache siano piene di episodi come questi: a febbraio l’allenatore della Pro Vercelli Franco Lerda grida “alzati, Africa” a un giocatore della Renana. Nello stesso periodo nella prima categoria foggiana, il ventunenne calciatore Fofana viene invitato a “tornare a casa propria” da un avversario.
Poco importa che Fofana giocasse da oltre tre anni in provincia di Avellino: per i razzisti, del resto, se non sei bianco meriti gli insulti anche se giochi a 15 anni nei giovanissimi della provincia di Monza. A ottobre, in Cosov – Pro Lissone, a un calciatore della squadra di casa viene detto di tornare a mangiare frutti esotici.
E la cosa più sconcertante è la costante indifferenza di molti tecnici, dirigenti e tifosi raccontata dalle vittime: in molte occasioni a chi subisce viene detto di non prendersela, di ignorare il fatto, che resta però puntualmente impunito se chi lo subisce non fa scoppiare il putiferio. L’immagine perfetta di un calcio italiano che, ad ogni episodio di razzismo, grida allo scandalo e poi si gira dall’altra parte.