Ci sono due tendenze seriali, negli ultimi anni, entrambe hanno a che fare con la pandemia, e col modo in cui la pandemia ha messo a nudo impietosamente – almeno per chi ha voglia di non distogliere lo sguardo – le enormi diseguaglianze su cui si costruisce la nostra società. Un primo trend è quello incentrato su storie che si svolgono in un’unica location, dentro la quale si muovono tutti i personaggi: ha a che fare con esigenze molto pratiche, con le limitazioni imposte alle riprese durante i vari lockdown – crew ridotte, protocolli sanitari, etc. –, ma anche quando si è tornati pian piano ai ritmi e alla gestione pre Covid la necessità è rimasta, come la traccia ancora sensibile dell’emergenza recente anche in show molto diversi (da Scene da un matrimonio a The Bear). La seconda tendenza è quella che ha visto proliferare narrazioni critiche della ricchezza e del potere, da Succession a Squid Game: non più favole aspirazionali, ma denunce di un sistema tossico e ingiusto basato sull’oppressione. C’è almeno una serie che riunisce entrambe le cose, ed è The White Lotus, ideata da Mike White (già responsabile dell’acclamata dramedy Enlightened con Laura Dern): la prima stagione è arrivata sugli schermi (sia statunitensi sia italiani) nell’estate del 2021, e agli ultimi premi Emmy ha fatto incetta di statuette (dieci) nella categoria limited series, risultando lo show più premiato dell’intera cerimonia.
Nata come miniserie autoconclusiva, il successo è stato tale che il canale HBO ha deciso di rinnovarla per una seconda stagione, in onda in queste settimane su Sky e Now in contemporanea con gli Usa, e per una terza, la cui lavorazione inizierà a breve. Il format, però, è antologico: ogni stagione racconta una storia a sé, con nuovi personaggi, ambientata in un resort di lusso della fittizia catena White Lotus. Ogni stagione dura sei o sette puntate, ogni episodio corrisponde a un giorno della medesima vacanza. E in ogni stagione qualcuno muore, ma per sapere chi, come e perché bisogna aspettare la fine, anche se presto risulta chiaro che non è davvero un delitto il principale oggetto d’indagine dello show; o, meglio, che il vero delitto è quello perpetuato incessantemente dai ricchi e potenti – ovviamente bianchissimi – protagonisti ai danni di tutti gli altri. La prima stagione si svolge alle Hawaii, su un’isola paradisiaca che ospita un hotel esclusivo. Il cui direttore si preoccupa di spiegare ai dipendenti che devono rendersi intercambiabili, invisibili, annullarsi per soddisfare nel modo più agevole e piacevole possibile ogni singolo desiderio degli ospiti. I principali sono una famiglia – madre ricchissima dirigente d’azienda, padre in crisi di mezza età, figlia maggiore con migliore amica a carico, figlio minore videogiocatore compulsivo –, una coppietta in luna di miele – lui più che mai abbiente, lei ex giornalista freelance – e infine una strana donna, Tanya, apparentemente scollegata dalla realtà. La seconda annata sbarca invece nel Belpaese, in Sicilia, e nel cast ci sono anche nomi italiani: Sabrina Impacciatore è la direttrice del White Lotus siciliano, nervosa e tirannica, preoccupata esclusivamente del buon nome dell’hotel (nella prima scena, quando si scopre un cadavere in spiaggia, commenta: «Beh, il mare mica è nostra responsabilità!»), Beatrice Grannò e Simona Tabasco due giovanissime bellezze locali in cerca di fortuna. L’unica protagonista della stagione precedente a tornare è la Tanya di Jennifer Coolidge (premiata con l’Emmy per la miglior attrice non protagonista), mentre i nuovi ospiti sotto i riflettori sono un terzetto composto da nonno, padre e nipote – vengono da Los Angeles, il padre è un produttore cinematografico, ma vogliono esplorare le radici siciliane – e una doppia coppia di presunti amici, in realtà molto diversi tra loro. Inquadrare una manciata di super ricchi in un’unica location e in un periodo limitato permette di osservare, come in scala, il sistema di oppressione che abitano e perpetuano: loro in cima alla catena alimentare, tutti gli altri sotto, in un ventaglio che va dall’utile all’invisibile, in una dinamica di sfruttamento che pare inscalfibile. Intanto, un episodio dopo l’altro, come in una pentola a pressione, la tensione monta, fino a sembrare insostenibile, fino all’inevitabile deflagrazione. Ma, come quasi sempre, il risultato è quello – gattopardiano, ci vien da dire, visto che siamo in Sicilia – di ristabilire lo status quo. E così anche a noi, oltre che ai protagonisti, la vacanza al White Lotus finisce per lasciare l’amaro in bocca. Fino alla prossima destinazione.
Torna a Palermo la seconda stagione di The White Lotus
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Autore articolo
Alice Cucchetti