Negli Stati Uniti si è conclusa il 10 novembre, proprio nella settimana delle sorprendenti elezioni di Midterm; in Italia l’ultima puntata arriva mercoledì 23 novembre sulla piattaforma TIMVISION, che da sempre la distribuisce in anteprima (ma le prime stagioni ora le trovate anche su RaiPlay e Prime Video). Stiamo parlando di The Good Fight, una serie tv che non ha mai raggiunto le vette di popolarità di House of the Dragon o Stranger Things, eppure negli ultimi sei anni ha raccolto continue lodi e inviti a scoprirla da parte di critici e addetti ai lavori (anche in questa rubrica).
Con la sesta stagione chiude definitivamente i battenti, anche se moltissimi spettatori sperano in uno spinoff: d’altronde, The Good Fight stessa è lo spinoff-sequel di un’altra serie, The Good Wife, che pure per sette anni aveva raccolto apprezzamenti unanimi se non un vastissimo seguito di pubblico.
Se The Good Wife raccontava l’evoluzione della protagonista Alicia da “buona moglie” di un procuratore distrettuale corrotto a avvocata di successo dall’etica sempre più malleabile, The Good Fight ha seguito principalmente quella che di Alicia è stata a lungo la capa e mentore, Diane Lockhart, legale di successo, fondatrice di un importante studio, nota per il suo attivismo femminista e per il suo sostegno ai democratici.
All’inizio di The Good Fight, Diane perdeva tutto a causa di una truffa finanziaria e ricominciava, quasi da zero, in un nuovo studio, a prevalenza afroamericana, nel quale lei e un paio di altri personaggi erano, in un certo senso, la “quota bianca”. E se The Good Wife è stata espressione precisa dell’era Obama, anche con le sue ombre e ipocrisie, The Good Fight è diventata immediatamente il miglior racconto possibile della presidenza Trump: dalla prospettiva di un gruppo di avvocati progressisti, tutto fuorché ingenui ma comunque abituati a muoversi nell’ambito della legge, delle regole e dei fatti, il quadriennio trumpiano veniva visto – e dunque rappresentato – in tutta la sua irrazionale assurdità, tra fake news, “fatti alternativi”, ipotesi d’impeachment, presenza sempre più invasiva dei social network e anche, a un certo punto, l’arrivo dei giudici direttamente nominati dal presidente, del tutto impreparati a svolgere la propria funzione.
The Good Fight, come la serie da cui si origina, è un legal drama, moltissime puntate prevedono uno o più casi dibattuti in tribunale: ma, complice anche la collocazione su una piattaforma streaming invece che su un network generalista, la serie riusciva a sfruttare proprio l’ambientazione giudiziaria per mostrare quanto possano essere fragili le istituzioni democratiche se chi è al potere e un numero consistente di cittadini smettono di rispettarle.
Nello stesso tempo, lo show si è preoccupato di mostrare, restando accanto alla prospettiva di Diane Lockhart – interpretata da una strepitosa Christine Baranski –, il senso di progressiva dissociazione dalla realtà, di frustrazione, rabbia e angoscia instillato, giorno dopo giorno, da un mondo sempre più diviso e sempre più “fuori controllo”.
Diane ha provato ad assumere piccole quantità di allucinogeni come tranquillanti, si è iscritta a un corso di arti marziali, ha imparato a lanciare piccole asce come esercizio antistress, si è unita per un po’ a un gruppo segreto di donne che tentavano di sabotare, con mezzi più o meno legali, il governo in carica.
Un altro grande punto di forza di The Good Fight, infatti, è stata anche la sua grande ironia: non solo il tono è spesso brillante, ma la serie non ha mai mancato di sottolineare anche le contraddizioni e le debolezze della propria parte politica (in particolare del partito democratico).
E, dopo il 2020 e l’elezione di Biden, lo show ha mantenuto salda la sua presa sulla realtà, perché il trumpismo non è certo sparito, anzi. Nella quinta stagione, The Good Fight si è immaginata che qualcuno potesse mettere in piedi un tribunale fittizio, per ovviare alle inadeguatezze di quello ufficiale; nella sesta e ultima ai piedi degli uffici in cui si muovevano i personaggi c’era costantemente una folla di manifestanti impegnati a scontrarsi tra loro, un modo efficacissimo di rappresentare la violenza che permea il dibattito pubblico e di renderla visibile. Insomma, come le migliori serie tv, The Good Fight ha saputo esprimere lo spirito del suo tempo, e farsene cronaca e commento. Il consiglio, ancora una volta, è: recuperatela.