Nel mezzo della pandemia, mentre tutta la stampa internazionale era impegnata nel dibattito sui vaccini, in Myanmar i militari ponevano fine alla breve parentesi democratica che si era aperta nel 2012. Era il primo febbraio del 2021: le moderate proteste della comunità internazionale furono messe a tacere dalla Cina, che fece valere il suo diritto di veto presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Era chiaro che, come sempre, i militari birmani agivano in modo coordinato con la Cina per tornare a governare col pugno di ferro un Paese del quale da tempo controllano buona parte dell’economia.
Mentre si susseguono i processi farsa contro la leader Aung San Suu Kyi e i funzionari del governo deposto, la vera natura del golpe emerge con chiarezza: al centro di tutto c’è il controllo delle terre rare di cui il Myanmar è ricco. Con il nome “terre rare” oggi si indica un insieme di 17 elementi chimici della tavola periodica. L’uso di questi elementi è decisivo per la fabbricazione di magneti, superconduttori, fibre ottiche, catalizzatori e vari componenti usati per la produzione di autoveicoli ibridi. Si può affermare che, senza di essi, la rivoluzione tecnologica in corso difficilmente sarebbe avvenuta. Ma le terre che li contengono sono, appunto, rare: si concentrano in specifiche regioni del pianeta e i giacimenti sono in poche mani. La Cina controlla circa il 60% del mercato mondiale e il Myanmar un altro 10%. Dopo il golpe birmano sostenuto dalla Cina, la situazione è diventata quasi monopolistica.
Per motivi ambientali, considerato il pesante impatto ambientale dell’estrazione, dal 2016 la Cina ha cominciato a limitare l’attività sul suo suolo, andando però a estrarre altrove i preziosi minerali. La nuova frontiera è diventata ora il Kachin, una regione semi-autonoma del Myanmar scossa da conflitti armati e ora controllata da un gruppo alleato dei militari di Yangon. Il metodo di estrazione usato in Myanmar produce liquami tossici che vengono scaricati senza trattamenti, inquinando corsi d’acqua e terreni. Secondo l’ONG britannica Global Witness, che ha condotto una ricerca avvalendosi di immagini satellitari, i luoghi di estrazione birmani sono passati in pochi mesi «da qualche decina a oltre 2700 in 300 località». Il Myanmar, come la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana e altri Paesi, è entrato di diritto nel grande gioco delle materie prime strategiche gestito da Pechino, in barba alla democrazia e alla tutela ambientale. La situazione di mercato impone a tutti i fabbricanti di tecnologie “green” di rifornirsi dalla Cina e dai suoi Stati-satellite, che sono però la negazione del principio di sostenibilità. Come per il settore energetico europeo, che dipende dal gas russo e si trova a finanziare il conflitto ucraino, le terre rare sono fornite da chi ha calpestato i diritti umani e sta distruggendo l’ambiente su vasta scala. È questa, al di là della retorica trionfalistica, la più grande contraddizione della società smart, che promette futuri verdi ma è obbligata ad alimentarsi con materie prime tossiche. Forse anche per questa ragione il colpo di Stato dei militari birmani è scomparso velocemente dai titoli dei giornali: la macchina non si può inceppare, anche se per rifornirla bisogna chiudere gli occhi e far finta di niente. E quello birmano è diventato un golpe desaparecido.