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La fine del “modello Wukan”

13 arresti e un numero imprecisato di feriti.

E’ il risultato dell’irruzione dei paramilitari avvenuta ieri nella cittadina di Wukan e nelle case dei suoi abitanti che protestavano contro la condanna per corruzione del leader del villaggio, Lin Zuluan. Wukan è famosa perché nel 2011 la gente di questa cittadina di circa 20mila abitanti condusse una lotta che durò oltre un anno contro le autorità locali, che intendevano sequestrare i terreni agricoli per darli a un’immobiliare di Hong Kong.

Una storia come se ne vedono tante, in Cina, dove molto spesso le casse dei governi locali e le tasche dei funzionari si riempiono proprio grazie alla vendita di terre al palazzinaro di turno. A differenza di molte altre, la lotta di Wukan fu però coronata dal successo ed ebbe il suo culmine nel settembre del 2011, quando la cittadinanza cacciò via letteralmente i funzionari di Partito e diede il via a un’esperienza di autorganizzazione. La polizia circondò il villaggio e la situazione di stallo durò per circa dieci giorni, nei quali alcuni giornalisti stranieri riuscirono a oltrepassare il blocco e cominciarono a raccontare quella vicenda in presa diretta, facendola conoscere al mondo attraverso i social media.

A quell’esperienza concorsero sia giovani migranti rientrati precipitosamente nel villaggio d’origine portando in dote le conoscenze tecnologiche acquisite in città, sia la vecchia generazione rurale, radicata su un territorio che conosceva da decenni. Tra questi ultimi, c’era proprio l’allora sessantacinquenne Lin Zuluan, che si distinse presto come leader della lotta: membro del Partito comunista, ex funzionario, divenuto poi businessman. Vecchio volpone dalla estesa rete relazionale.

Di fronte all’escalation, intervennero allora le autorità della provincia del Guangdong e, creando un precedente che fece gridare al miracolo la stampa occidentale, concessero elezioni democratiche. Così, all’inizio del 2012, gli abitanti della cittadina elessero il comitato di villaggio in una storica votazione che fu ripresa da tutti i media nazionali e internazionali (se googlate, trovate ancora le foto della gente che infila la scheda elettorale nelle urne a cielo aperto). Le elezioni a livello di villaggio sono ampiamente diffuse in Cina, ma il punto è la trasparenza del voto, con il Partito che di solito impone i propri candidati.

Vincitore delle elezioni e nuovo leader risultò allora essere proprio Lin Zuluan. Continuità e divergenza: lui iscritto al Partito ed ex funzionario, ma a capo di un comitato formato da semplici cittadini. Si parlò allora di «modello Wukan» per celebrare un’esperienza in cui dalla lotta nasceva l’autorganizzazione che si concludeva poi nel voto democratico. Musica per le orecchie dei liberaldemocratici di tutto il mondo: il movimento dal basso che poi si ricompone nelle pratiche elettorali della democrazia borghese.

Tuttavia, l’esperienza durò poco. Da subito, il comitato si scontrò con l’impossibilità di ridiscutere contratti di cessione delle terre già firmati da tempo e la gente che l’aveva votato cominciò a rivoltarglisi contro: ma come? Non ci avevano promesso che le nostre terre non sarebbero state cedute? Così, dopo circa un anno l’esperienza sembrava già fallita, con alcuni dei neo-eletti che lamentavano il fatto di essere diventati capri espiatori e giuravano che mai e poi mai si sarebbero ricandidati.

Il vecchio Lin però teneva duro e lo scorso giugno, ormai settantenne, ha convocato una manifestazione popolare per lanciare un nuovo round di lotte. Tuttavia, prima che potesse agire è stato portato via dalla polizia e quindi accusato di corruzione per avere intascato mazzette proprio durante il suo incarico a Wukan. Il processo a porte chiuse che si è svolto la scorsa settimana l’ha condannato a 3 anni di prigione e 200mila yuan di multa (oltre 25mila euro). La sua famiglia dice ora che il verdetto è stato ingiusto perché Lin avrebbe collaborato con le autorità durante il processo. Attivisti per i diritti civili sono stati tenuti fuori dalla corte e denunciano che l’imputato non ha potuto scegliersi gli avvocati e ha dovuto accettare quelli d’ufficio.

Quanto alla gente di Wukan, stava dimostrando da oltre 80 giorni e minacciava uno sciopero di quattro giorni, quando è avvenuto l’assalto di ieri. Difficile fare previsioni su cosa accadrà ora. Sembrerebbe fare una pessima figura Hu Chunhua, governatore del Guangdong, fino a poco tempo fa uno degli astri nascenti della politica cinese. La carriera dei funzionari locali non si basa solo sui successi economici, ma anche e soprattutto sulla loro capacità di mantenere la pace sociale. Ben diversamente si era comportato nel 2011-2012 Wang Yang, il suo predecessore, l’uomo che concesse le elezioni. Ma forse, la condanna del vecchio Lin e i proiettili di gomma di Wukan sono un avvertimento che viene da ben più in alto: nessuno spazio per l’autorganizzazione, nella Cina di Xi Jinping.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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