E’ morto lo scrittore Ermanno Rea. Aveva 89 anni.
Nella sua lunga carriera ha scritto, oltre ai libri, per diversi quotidiani e settimanali. All’attività di intellettuale aveva unito ancher l’impegno politico che lo aveva portato a candidarsi con la Lista Tsipras alle ultime elezioni europee.
“Mistero Napoletano” e “La dismissione” i suoi lavori più noti. Nel primo racconta la storia napoletana del PCI negli anni 50. Nel secondo la vicenda della crisi industriale di Bagnoli.
«La dismissione dell’Ilva ha riguardato non solo una fabbrica, ma forse una città intera» ha detto Ermanno Rea ospite di Memos nell’ottobre 2015, a vent’ anni circa dall’inizio delle operazioni di smantellamento della grande fabbrica. “La classe operaia a Napoli è stata completamente spazzata via, non ha più avuto voce in capitolo e una parte cospicua della città è stata messa allo sbaraglio».
Rea aveva raccontato l’origine della storia centenaria della fabbrica dell’acciaio napoletana: «L’Ilva nasce all’inizio del secolo scorso con una missione salvifica rispetto alla città: dare lavoro ed essere un argine contro la camorra. E anche successivamente – nel dopoguerra – la fabbrica doveva compiere la sua missione di bonificare il vicolo, la Napoli sottoproletaria dell’ illegalità diffusa. C’era una classe operaia estesa che portava nella società napoletana un elemento di ordine, di razionalità, di onestà e attaccamento al lavoro che contrastava con la città del vicolo».
“Che la fabbrica prima o poi potesse essere chiusa o delocalizzata lo capisco – ci aveva detto lo scrittore – La chiusura di Bagnoli avrebbe aperto la possibilità di riutilizzare aree di enorme valore immobiliare che facevano gola a molti. Ma ciò che mi colpì fu il modo brutale con cui fu chiusa, proprio mentre poteva essere rilanciata».
Ermanno Rea aveva una sua spiegazione “sistemica” del fallimento di Bagnoli, che spiegava così: «l’Italia è colpevole di non essere riuscita a diventare un paese unito. E’ prevalso un incallito anti-meridionalismo della classe dirigente. Ma anche Napoli è stata colpevole quando si è ripiegata su se stessa e ha coltivato la cultura della sovvenzione».
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