
Quando Giorgia Meloni dice che il presidenzialismo è una riforma seria bisogna prenderla sul serio. Nel senso che se la destra dovesse andare al governo dopo il prossimo 25 settembre, l’elezione diretta del Capo dello Stato non sarà rimessa nel cassetto dei programmi elettorali.
Con tutta probabilità il presidenzialismo rimarrà lì, al centro dell’azione politica della nuova maggioranza, indipendentemente dal fatto che abbia i due terzi dei parlamentari necessari per farla passare senza un referendum confermativo.
Perché sarà così? Per due motivi. Il primo è la portata ideologica di questa destra, soprattutto della leader di Fratelli d’Italia e molto meno di Berlusconi, che da tempo guarda alla riforma presidenziale come la vera cesura nella storia dell’Italia Repubblicana nata dalla Resistenza.
Giorgia Meloni intravede il traguardo: sull’onda di un risultato elettorale favorevole pensa sia giunto il momento per una modifica profonda delle nostre istituzioni. Cogliere l’attimo. Se non ora, quando? Il secondo motivo è più politico. Il prossimo governo di destra non avrà i soldi per attuare le promesse di questa campagna elettorale. Ci saranno i vincoli europei, i progetti già avviati e non modificabili del PNRR. Già avrà il fiato addosso di Bruxelles, figuriamoci cosa accadrà se un governo Meloni si dovesse mettere in rotta di collisione su debito e deficit.
Il combinato disposto tra la chiusura dei cordoni della borsa e i minori introiti fiscali, visto le riforme promesse, metteranno ancora più in difficoltà le casse dello Stato. La lotta al disagio sociale promessa da Meloni che fine farà? La risposta politica sarà prendersela con i migranti, magari attaccare qualcuno dei diritti civili conquistato negli anni e mettere sul piatto la riforma presidenziale come la panacea di tutti i mali. Così la destra avrà la scusa politica per tentare di raggiungere l’obiettivo ideologico che insegue da decenni.