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Accanto ai malati inguaribili fino alla fine. I 40 anni di Vidas a Milano

Arrivati all’ingresso, quello che colpisce sono le terrazze e le ampie vetrate. Ricorre una parola, semplice e familiare come “casa”. Eppure si prova la sensazione di avvicinare un luogo che le certezze è capace di scuoterle. Non tanto per farle cadere, quanto per mostrare quali sono quelle che contano davvero. Al Gallaratese, nella periferia nord-ovest di Milano, Casa Vidas e Casa Sollievo Bimbi aprono le porte a una realtà che ognuno di noi cerca di tenere ben lontana dai pensieri quotidiani: la malattia e l’avvicinarsi della morte.

Vidas è l’associazione fondata nel 1982 da Giovanna Cavazzoni con l’aiuto di pochi volontari. Da 40 anni offre gratuitamente assistenza e cure domiciliari ai malati inguaribili. Inguaribili, mai incurabili. Una distinzione che fa tutta la differenza del mondo quando si viene messi davanti alla fine della vita.

Oggi centinaia di volontari e operatori sociosanitari, insieme a medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, insieme a tante altre figure professionali, consentono a Vidas di prendersi cura di circa 250 persone ogni giorno. Nelle loro case e negli hospice di Vidas, i luoghi aperti alcuni anni fa al Gallaratese, tra i pochissimi in Italia interamente dedicati a chi è affetto da malattie gravissime e ai suoi cari.

Una delle prime figure a entrare in contatto con chi può avere bisogno di Vidas è l’assistente sociale. Alberto Grossi racconta lo stato d’animo che incontra più spesso nel rispondere alle chiamate:

Uno dei punti fondamentali è la capacità di restare accanto, in equilibrio tra il calore umano e il minimo di distanza necessario per dare aiuto a più persone possibili. “Il nostro compito è far capire alle persone che fino alla fine non le lasceremo sole, che del loro dolore noi non abbiamo paura. Questo ci rende oggetto di enorme gratitudine – spiega Giada Lonati, medico palliativista e direttrice sociosanitaria di Vidas – È molto chiaro che è il dolore dell’altro, ma senza questo lavoro di distinzione su di sé non saremmo in grado di aiutare tanti pazienti”.

La gratitudine è il sentimento prevalente, ma accade anche, in momenti così difficili, che le relazioni con pazienti e familiari non siano agevoli: “Succede che le persone siano arrabbiate, capita che non si riesca a entrare nella relazione giusta. In questi casi si rimane comunque – dice Emanuela Lucchi, infermiera di Vidas – si cerca la forma più consona per essere presenti. Perché magari quella famiglia sta esprimendo in una forma difficile un dolore enorme come la perdita di un proprio caro”.

Emanuela e i suoi colleghi sono le persone che spesso raccolgono le angosce e i pensieri più profondi dei loro assistiti. Davanti a queste paure, le parole possono curare anche più dei farmaci.

Questa forma di pensiero, quasi una filosofia verrebbe da dire, suona semplice e pure lontana da quel che si vede più di frequente nella sanità. In Lombardia questa distanza sembra anche più grande. Giada Lonati:

In questi mesi si parla molto di avvicinare la sanità alle persone, alle loro case. La realtà spesso ricorda quanta strada ci sia ancora da fare. Se si accoglie fino in fondo lo sguardo della cura, sembra paradossale vedere come i malati e i loro cari, proprio nei momenti di maggiore vulnerabilità, corrano il rischio di ritrovarsi soli.

Mattia racconta l’esperienza che ha avuto con Vidas per suo papà. Cinque anni fa, suo padre aveva ricevuto la diagnosi di un tumore. Lo scorso dicembre, in poche settimane, le sue condizioni di salute sono peggiorate in modo grave. Per gli oncologi al papà di Mattia restavano due mesi di vita. Una previsione accompagnata da questa frase: “Non c’è più niente da fare”.

Quando dall’ospedale ci hanno detto che entro pochi giorni lo avrebbero dimesso, il messaggio era di fatto “arrangiatevi”. Abbiamo contattato Vidas e in un’ora sono stato richiamato – racconta Mattia – la cosa più importante è stata la loro chiarezza. Ci hanno chiesto quali erano le nostre possibilità di spazi e quale soluzione avremmo ritenuto migliore per papà. L’idea comune nella mia famiglia era di evitare di mandarlo in una struttura. Loro sono bravissimi a capire fin dove puoi arrivare, capiscono tutti i tuoi possibili problemi. Prima di quella telefonata c’era solo tanta burocrazia”.

Quando non c’è più niente da fare, c’è ancora molto da fare”. Questo assunto di Vidas suona particolarmente vicino alla realtà se si considera quanto accompagnare alla morte un proprio caro possa cambiare le persone. La testimonianza di Mattia:

Un primo passo verso questa rivoluzione dello sguardo sembra più di altri necessario: parlare della morte, parlare pubblicamente della morte. Condividere un linguaggio che non teme di parlare della morte può aiutare a fare qualcosa che solo in apparenza sembra paradossale. Rendere la vita migliore.

di Luca Parena

Foto dalla pagina Facebook di VIDAS – Assistenza ai Malati inguaribili

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    Si è concluso questa mattina il presidio organizzato davanti all’ufficio immigrazione di via Montebello a Milano per chiedere la liberazione di Ayoub. Il ventunenne di origini tunisine è stato liberato dopo quasi 18 ore di fermo. Ieri pomeriggio si trovava davanti a un bar sotto casa insieme a un amico, quando è arrivata una volante della polizia che ha iniziato a controllare i documenti dei presenti. Gli agenti gli hanno tolto il telefono e l’hanno portato in questura perché il suo permesso di soggiorno non era in regola. Ayoub, che partecipa alle attività del centro sociale Lambretta ed è seguito dalla comunità Kayros di Don Claudio Burgio, ha passato la notte in questura in attesa di un’udienza per decidere della sua espulsione dal territorio italiano. Dopo aver fatto domanda d’asilo, questa mattina Ayoub è stato liberato. Il 22 aprile dovrà presentarsi nuovamente all’ufficio di immigrazione con il suo avvocato. Secondo il centro sociale Lambretta, che ha organizzato il presidio, “quello che è accaduto non è un’eccezione: è la normalità per oltre un milione di persone senza documenti in Italia. Un sistema che criminalizza la migrazione, sospende lo stato di diritto e produce esclusione sociale”. Dopo il rilascio di Ayoub, le persone in presidio, una cinquantina, l’hanno accolto con un coro: “Tutti liberi, tutte libere”. Tra gli applausi, i ragazzi e le ragazze che lo aspettavano si sono stretti attorno a lui in un abbraccio collettivo. Chiara Manetti ha intervistato Ayoub dopo il suo rilascio.

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