La settimana scorsa avevo iniziato a raccontarvi dell’ISHS Conference, l’annuale conferenza dell’International Society of Humour Studies (cioè, la Società Internazionale di studi sull’Umorismo), riassumendovi il senso degli interventi più interessanti. Oddio, ve ne avevo presentato solo uno, a mo’ di cliffhanger con la puntata dopo, come nelle migliori serie… e siccome in uno scenario internazionale con guerra, aumento sconsiderato del prezzo delle materie prime, inflazione, siccità e risalita dei casi Covid, una cosa piccina come una crisi di governo in Italia mi pare al confronto quasi un ritorno alla normalità, alle vecchie usanze d’un tempo, un sicuro focolare domestico che dona un senso di confortevole stabilità (ah, le vecchie care abitudini: “in fondo, non sta poi cambiano così tanto, il mondo”…) eccomi qui, tutto tranquillo in questa seconda attesissima puntata, a presentarvi gli altri interventi.
Occhio che alcuni erano davvero fichi.
Christian Hempelmann, tedesco, ha proposto una panoramica su come in varie culture la parola “merda” venga usata in barzellette e battute. Facendomi ritornare alla mente quella frase di Steven Pinker, che diceva che “a volte può essere più volgare la parola pulita della parolaccia, visto che ‘merda’ potrebbe essere anche ‘disdetta’; mentre ‘escrementi’ può essere solo ‘merda’”. Effettivamente…
Andrew Olah ha analizzato il caso di scuola di “Card Against Humanity”, il celebre gioco da tavola lanciato sul mercato da Amazon con lo slogan “A party game for horrible people”, visto che, sì, è costruito su botta e risposta ispirate allo humour più nero, cinico e – anceh se non volutamente – offensivo. Grande successo in America, ma anche tantissime critiche e feroce dibattito: a tal proposito, Olah ha posto l’accento su una distinzione che potrà sembrare un bizantinismo insignificante, e cioè che “anche la battuta più aggressiva su una certa categoria sociale non crea il pregiudizio: semmai lo permette”. Ugualmente grave? Certo, ma in un altro studio egli ha dimostrato che non c’è nessun legame tra la reale messa in pratica di comportamenti offensivi, anche verbali, e la fruizione del black humour (anche quello più estremamente spietato, con turpiloquio, linguaggio discriminatorio in ambito etnico e sessuale; e sia nel senso della produzione attiva che in quello dell’esposizione passiva). Quando è presente l’intenzione umoristica, anche una bad word solitamente usata in senso offensivo viene comunque inserita in una cornice, anche solo accennata, di narrazione: questo contribuirebbe automaticamente a creare empatia, fosse anche minima, tra soggetto narrante e narrato. Al contrario, si sono registrati più spesso comportamenti violenti e aggressivi in soggetti che usano questi termini come insulto tout court, come parola singola o termine decontestualizzato; e mai a fini umoristici. Ovviamente, tutto ciò (attenzione!) non è un lasciapassare per il libero uso di linguaggio discriminatorio (“tanto basta inserirlo in una barzelletta”): è solo un’analisi a posteriori di quanto accaduto nei casi studiati. No, perché se no altrimenti Pio e Amedeo sono di nuovo dietro l’angolo…
Come Tristan Miller prima (vedi puntata precedente) il professor Salvatore Attardo (docente italiano alla Texas University) ha celebrato Erving Goffman, che tutti citano ma che forse nessuno ha letto”. Uno scrittore e studioso che, sebbene non abbia prodotto “una visione scientificamente sistematica sull’umorismo”, ha però offerto nei suoi scritti numerosi, gustosi e interessantissimi spunti di lettura sulla società moderna. A me è venuto in mente un misto tra Pasolini e Flaiano, ma non so se rende (o se, soprattutto, ho capito male io). Attardo, a proposito di Goffman, si è soffermato a chiarire la differenza tra due differenti elementi contestuali entrambi necessari per poter comprendere se e quando l’intenzione comunicativa del parlante è umoristica, cioè la “key” e la “frame”: la prima è sociale e generale, l’altra individuale e personale. Ah ecco!
La professoressa Chiara Bucaria, dell’Università di Barcellona, ha proposto un argomento a me molto caro: l’uso dell’umorismo a scuola. Come usarlo correttamente? Che azioni proporre? Cosa fare in pratica? La ricercatrice ha suggerito varie attività tutte molto concrete e ben strutturate (non ultimo: il “contest di comicità tra alunni a scuola”, perché no?). Questa preparazione didattica è da lei giudicata molto più importante della personale disposizione caratteriale del docente all’umorismo, perché questo, se usato male, può portare a peggiorare le capacità di gestione della classe. Bucaria ha proposto poi un curioso quanto suggestivo modello didattico per l’umorismo in classe, in cui ogni diversa funzione è esemplificata da un particolare strumento: il cacciavite è il “pensiero positivo”, la vite è la “capacità di relazione interpersonale”, il martello è la “ragione per cui combattere” e il bullone una sorta di “centro interno di controllo”. Figo!
Daniel Bobker ha presentato, nel suo “Humour in Art and Art in Humour”, un confronto (mi pare, troppo schematico) tra l’artista e lo stand-up comedian, calcando la mano per marcare volutamente delle differenze tra queste due figure. I primi non possono che essere bohemiens in cerca dell’assoluta purezza; i secondi difficile che parlino se non di aspetti triviali per arrivare al pubblico vasto e crasso, e quindi al successo. Ma magari! (e poi: niente sfumature di grigio? Non dico cinquanta, ma almeno due o tre…)
E chiudiamo con Luca Bischetti, ricercatore allo IUSS di Pavia, il quale ha proposto, nel suo “Covido ergo Zoom”, un interessante studio sulla produzione comica di battute, meme e strisce su web e social media durante la pandemia di Covid-19 (e, soprattutto, con il Covid come argomento umoristico primario). “I risultati dello studio hanno mostrato che le forme comiche legate al Covid-19 non apparivano più divertenti degli stimoli su temi generali, ma al contempo erano caratterizzate da una marcata sensazione di disturbo. Sui giudizi di divertimento e disturbo, inoltre, influivano l’età e l’uso dell’umorismo come meccanismo di coping. La ricerca ha rivelato che non tutti percepiscono allo stesso modo l’umorismo sul Covid-19, che anzi per alcuni può risultare particolarmente disturbante. Questi dati arricchiscono la letteratura sull’umorismo nero, ponendo l’accento sulle differenze individuali nella risposta emotiva all’umorismo ispirato al Covid-19”. Da notare come, con il passare del tempo, l’effetto umoristico di questo materiale sul Covid sia andato via via scemando, ma che la percezione di disturbo è rimasta stabile: non è aumentata. E che “bisognerebbe sempre distinguere tra un enunciato che rispetta i meccanismi del comico, le intenzioni umoristiche (e comunicative) con cui viene veicolato, e la resa effettiva o “perlocutiva” dell’enunciato stesso, cioè se lo stimolo comico è percepito come tale (e quindi se il destinatario, banalmente, ride)”.
Ecco, soprattutto quest’ultima distinzione credo debba essere sempre tenuta in considerazione, quando si ragiona su satira, censura, umorismo “troppo duro”, cose che non si possono dire…
E finisce qui? Ma no: gli altri ve li svelo la prossima settimana!
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