Le ultime amministrative hanno lanciato un bel segnale: ai partiti e non solo a loro. La sveglia ha puntato diretta anche verso media (gli stereotipi dell’informazione politica di giornali, tv, radio), cultura (nelle più variegate espressioni di essa), scuola (università soprattutto), organizzazioni sociali (sindacati e imprenditori), mondo delle professioni (architetti, economisti, urbanisti; pure sociologi e psicologi), Chiesa (che riscopra il territorio: non può affidarsi solo a Francesco). Insomma sugli attori della società civile è piovuto un messaggio bruciante: il Paese ha bisogno che essi abbandonino le terre infeconde della separatezza dalla politica, su cui prosperano rendite di posizione, corporativismi, disimpegno, interessi inconfessabili.
Società e politica son due facce d’un’unica medaglia. Dopo Lodi, Verona, Piacenza, Parma, Catanzaro una realtà è evidente: prevale chi candidandosi ad amministrare (a fare politica: la polis è il nucleo esemplare della gestione della cosa pubblica) va incontro alle persone, le ascolta in quanto persone come lui (o lei), coglie i bisogni dell’ambiente, si ripromette di studiare con competenza le situazioni (affiancato da tecnici per capire le complessità non per abdicare a responsabilità), mette a punto ipotesi di soluzione confrontate con idealità, discute, individua soluzioni e specifica risorse e tempi. Conosco l’obiezione: gli enti locali son cosa diversa dal sistema nazionale. È vero. Ma conta l’essenza del “servire il pubblico” con la politica, non la dimensione. La sfida è cambiare mentalità, pensare alla “città Italia”, immaginare il Paese alla maniera di una città.
Dopo il voto leader e media han parlato d’alchimie, formule, “nuovo Ulivo”. Prodi ha gelato entusiasmi e smagato prestigiatori. Le bandiere contano se han dietro una realtà. Ha ricordato d’aver battuto due volte Berlusconi perché è salito su un pullman e ha girato l’Italia andando a trovare e ascoltare uomini donne giovani anziani. Così Berlusconi è rimasto a secco, con soldi, tv (e altro). Cantava Gaber: «La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche un gesto o un’invenzione / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione». È un’istruttiva parabola per la modernità.