Mancano poco meno di cinque mesi alla COP27, che quest’anno sarà ospitata a Sharm el-Sheikh dal 6 al 18 novembre. La presidenza dell’evento concessa all’Egitto però è stata criticata da associazioni e attivisti per l’ambiente che, in un Paese dove l’espressione del dissenso è duramente repressa, temono di non avere la possibilità di dire la loro.
La scelta di portare la COP in Egitto è stata commentata anche da Alaa Abd El Fattah, informatico e attivista per la democrazia, una delle figure chiave della rivoluzione egiziana del 2011, vittima da dieci anni delle autorità egiziane. Detenuto con motivazioni pretestuose dal 2013, oggi Abd El Fattah è all’89esimo giorno di sciopero della fame, al quale l’attivista si sta sottoponendo per protestare contro le condizioni durissime della sua detenzione e di quelle di altri prigionieri come lui.
In un messaggio consegnato a sua sorella, l’attivista Mona Seif, durante una visita tenutasi la scorsa settimana, Abd El Fattah ha scritto: “Tra tutti i Paesi a cui potevano dare la presidenza, hanno scelto proprio quello che vieta le proteste e che manda chiunque dissenta in prigione. Questo dice molto su come il mondo ha intenzione di trattare questo argomento, non sono interessati minimamente a trovare una soluzione condivisa per il clima”.
Il caso dell’attivista non è l’unico. Sono tanti i giovani egiziani che hanno pagato con il carcere, e spesso anche con la tortura, il fatto di aver lottato per la democrazia. Dal suo avvento al potere avvenuto con un colpo di Stato militare nel 2013, il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi ha condotto una sistematica epurazione dell’opposizione politica e un’ampia repressione del dissenso. Le carceri si sono di conseguenza riempite di intellettuali e comuni cittadini accusati di mettere a rischio la sicurezza nazionale, solo per aver protestato contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. Il presidente al-Sisi tuttavia continua a negare l’esistenza di prigionieri politici in Egitto.
Per molti osservatori, come si legge sul Guardian, la presidenza della COP27 sarebbe dunque per Sisi un’opportunità per ripulire la propria reputazione e dipingere l’Egitto come un posto sicuro dove passare le vacanze o organizzare conferenze importanti come quella attesa per novembre.
Ma diverse organizzazioni non governative, tra le quali anche Amnesty International, si sono attivate per mobilitare l’opinione pubblica e il movimento internazionale che si batte per la tutela del clima affinché chiedano ai governi dei Paesi che parteciperanno alla conferenza di fare pressione sulle istituzioni egiziane per garantire une libera e autentica partecipazione della società civile e il rilascio dei prigionieri politici, a partire da Alaa Abd El Fattah.
Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, a cui è stata affidata la supervisione dell’organizzazione della COP27, a maggio aveva riferito che l’Egitto consentirà lo svolgersi a Sharm el-Sheikh di manifestazioni e proteste, anche se in un’area separata dal luogo dove si terranno gli incontri.
L’accettazione passiva di queste condizioni, tuttavia, renderebbe i partecipanti alla COP complici dell’Egitto e dell’operazione di greenwashing che le autorità stanno attuando per nascondere i loro crimini contro i diritti umani.
Per Mona Seif tutto questo riguarda suo fratello Alaa, ma non solo. “Partecipare alla conferenza e venire in questo Paese significherebbe indirettamente approvare il governo mentre chi è al potere sta riducendo al silenzio chiunque abbia qualcosa da dire in contrario. Non permettono in nessun modo di dissentire”, ha detto l’attivista. “Così la COP27 rischia di diventare una farsa”.
di Eleonora Panseri