Lo avevano detto: il giorno stesso dell’inizio della campagna militare turca nel Nord della Siria, il portavoce presidenziale aveva dichiarato che allo scopo di proteggere la frontiera turca e di mantenere l’integrità territoriale, l’operazione sarebbe continuata e sarebbe stato messo in atto ogni passo ritenuto necessario.
L’ultimo “passo” è costato la vita a 35 civili curdi. I caccia e l’artiglieria turchi hanno colpito il villaggio curdo di Jub al-Kousa, a circa 14 chilometri da Jarabulus, nei pressi del confine con la Turchia. Per due volte. Secondo quanto riporta l’Osservatorio siriano dei diritti umani, il primo attacco ha provocato venti vittime. Un secondo attacco, che ha avuto per bersaglio una fattoria nella quale trovavano rifugio le famiglie in fuga dalle violenze in atto a sud della città di confine di Jarabulus, ha causato altri 15 morti.
Jarablus è la roccaforte dell’Isis che le forze turche hanno riconquistato il primo giorno dell’offensiva battezzata “Scudo dell’Eufrate”, quando per la prima volta forze di terra turche, con trenta carri armati e circa mille uomini in coalizione con organizzazioni ribelli siriane, hanno sconfinato nel Nord della Siria.
Obiettivo dell’operazione, sempre secondo quanto dichiarato dalla Turchia, quello di liberare la zona da tutte le forze terroristiche presenti. Quelle di Daesh come le unità di protezione del popolo curdo-siriane Ypg, che la Turchia considera una propaggine del Pkk, il Partito dei lavoratori curdo che Ankara ha inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Non è bastato che gli Stati Uniti, alleati delle Ypg, imponessero alle milizie curde di ritirarsi sulla sponda est dell’Eufrate, dopo che avevano strappato all’Isis un’altra roccaforte, quella di Manbij.
La Turchia ha intensificato gli attacchi in seguito alla morte del primo soldato turco nel corso dell’operazione militare in territorio siriano.
E’ sempre più evidente che priorità e ossessione della Turchia è evitare l’unificazione e il consolidamento di un’area autonoma curda in Siria a ridosso del suo confine. Il mantenimento di Jarabulus, città a maggioranza curda abitata anche da arabi e turcomanni che con la sua posizione strategica avrebbe offerto ai curdi la completa continuità territoriale fra le sue zone autonome, il cosiddetto “corridoio” curdo che tanto impensierisce il presidente Erdoğan.
E ne governa le scelte militari, le quali a loro volta modificano lo scacchiere delle alleanze nel contesto siriano. E non viceversa.
Ce lo spiega bene Fabio L. Grassi, docente di Storia dell’Eurasia e di Lingua Turca presso l’Università “La Sapienza” di Roma.
La Turchia ha compiuto un atto militare rilevante che è stato giudicato molto male dalla Russia. Questo dopo mesi di di gesti di riappacificazione e riavvicinamento. Ora di nuovo la Turchia rimescola le carte sul tavolo entrando nella partita siriana non di comune accordo con la Russia.
Si tratta di una schizofrenia solo apparente: un governo autonomo curdo in Siria sarebbe il nucleo di un più ampio Stato curdo e polo di attrazione per per il separatismo curdo. Inviso da Ankara in Siria, ma non in Iraq, dove invece i rapporti con il governo autonomo del Kurdistan, a guida Barzani, sono buoni. Le dinamiche, spiega Grassi, sono quindi molto più complesse e quelle reali non sono quelle che appaiono.
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Lo storico descrive l’attuale atteggiamento del governo turco come un’involuzione sulla questione rispetto a quella che era invece stata un’evoluzione iniziata e portata avanti proprio dallo stesso Erdoğan. Bisogna riconoscere che è sotto il governo dell’Akp, il partito islamico-conservatore di Erdoğan, che l’atteggiamento nei confronti della questione curda da parte dello Stato turco era cambiato. Sarebbe stato inimmaginabile che il precedente establishment laico d’ispirazione kemalista, che ora sta all’opposizione, facesse fare al Paese, sia in ambito sociale che politico, quello che ha fatto l’Akp: per esempio il 1° maggio 2009 si inaugurava un canale in curdo della tv di Stato e nel 2011 il Governo dava inizio di fatto a un negoziato con il Pkk, l’organizzazione armata curda con la quale si è portato avanti un sanguinoso conflitto per 35 anni.
Erdoğan, ci dice Fabio Grassi, non ama né odia i curdi: ma insegue il potere a vita, e quando ha capito che questa sua apertura non portava i risultati sperati in termini di consenso, ma anzi, contemporaneamente il partito curdo riusciva a collegarsi con la sinistra liberale e a entrare in parlamento, facendo sì che l’Akp perdesse la maggioranza assoluta, è tornato ad attingere al sempre affollato e mai estinto bacino nazionalista.
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