Ci scrive Silvia Maraone, operatrice della Ong IPSIA Acli, in missione insieme a Caritas Grecia nelle diverse tendopoli sorte dopo lo sgombero del campo di Idomeni (“che andava nascosto da giornali e tv”). Ieri è stata nei campi di Derveni e Oreokastro (“che non garantiscono nulla se non la sopravvivenza base”). Nel primo circa 750 persone, nel secondo 1.400. Il suo è un racconto, una spiegazione accurata e, insieme, una riflessione tutt’altro che scontata.
“Sul finire del maggio 2016 il campo informale di Idomeni (confine Nord della Grecia con la Macedonia), che ospitava circa 14mila persone per lo più provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq, è stato sgomberato dai militari. Le persone sono state spostate forzatamente nei campi ufficiali costruiti nel Paese a seguito dell’accordo di marzo tra Ue e Turchia, che ha di fatto chiuso la ‘Balkan route’ attraversata da quasi un milione di persone tra l’estate 2015 e la primavera 2016.
Da una parte Idomeni era diventato un simbolo di impotenza e ingiustizia. Per oltre due mesi uomini, donne e moltissimi bambini, sono rimasti accampati nel fango e sotto la pioggia, nella speranza della riapertura di un confine ben visibile, di là da un filo spinato, che rappresentava il raggiungimento di un sogno di libertà per molti in fuga dalla guerra che da anni interessa quelle regioni. Idomeni ci ricordava ogni giorno il simbolo del fallimento di una politica non inclusiva di una Unione Europea incapace di trovare un accordo per gestire la più grande crisi umanitaria cui il nostro continente si trova a far fronte nella sua storia.
Ma Idomeni rappresentava anche la forza delle centinaia di volontari – legati a organizzazioni o indipendenti – che per mesi hanno vissuto con i profughi nel tentativo di portare aiuto, sia materiale, che psicosociale. Là dove non sono arrivate le istituzioni, è arrivato un movimento dal basso che ha condiviso e portato la cultura dell’altruismo senza bandiere in un luogo dimenticato dalle forze politiche internazionali. Un movimento di persone nato tra i social network, che ogni giorno con post e fotogafie denunciava quello che stava accadendo nell’Unione Europea a persone colpevoli solo di essere nate dalla parte sbagliata del mondo.
La chiusura di Idomeni per ospitare le persone nei campi gestiti dai militari rappresenta la volontà di nascondere quello che ancora oggi succede in Grecia, cioè in Europa. Idomeni andava nascosto dai giornali e dalle tv ed è per questo che non si parla più della crisi umanitaria che interessa la penisola ellenica: 57.000 persone circa bloccate da fine marzo all’interno di strutture non idonee.
Tendopoli all’interno di fabbriche abbandonate nelle periferie industriali delle città, con pochi e inadeguati servizi igienici, senza acqua calda, costretti a vivere senza privacy su stuoini e coperte grigie militari in otto o più persone per tenda. Le giornate sono scandite dal ritmo monotono della distribuzione dei pasti, cibo insapore – se non cattivo – cucinato per migliaia di persone e consegnato in vaschette di plastica. Cibo che viene buttato dai profughi, che si lamentano e che vorrebbero poter cucinare per sé stessi, ma che non possono farlo per motivi di sicurezza. In realtà nei campi ciò che è probito avviene comunque. Le persone più intraprendenti si muovono e vanno nei paesi e cittadine attorno ai campi per comprare cibo e suppellettili per rivenderle nei campi, dove dunque si trovano coltelli, fornelli a gas, pentole.
I militari di guardia lasciano fare, per evitare problemi. Gestire mille e più persone nel modo sbagliato vorrebbe dire trovarsi di fronte a folle inferocite, stanche di questa situazione di incertezza e degrado. Meglio tollerare piuttosto che dover fronteggiare una rivolta.
I volontari che popolavano Idomeni però fanno fatica ad andare contro le regole di chi gestisce i campi e dunque non è facile accedere senza preventiva registrazione all’interno delle strutture. Per questo motivo alcuni fanno attività fuori dai campi stessi e sono i profughi a uscire, oppure in numero limitato viene permesso di fare animazione e corsi all’interno. Per questo motivo tra i profughi e le associazioni è normale parlare di un prima e un dopo Idomeni. È così che viene misurato il tempo e lo stato di benessere in Grecia. Paradossalmente era meglio vivere senza cibo, certezze, acqua sotto la pioggia, ma liberi, piuttosto che in strutture che, seppur autorizzando la libertà di movimento, non garantiscono nulla se non la sopravvivenza base.
Ed è per questo che le persone scappano dai campi, ed è per questo che prospera il lavoro dei trafficanti, ed è per questo che anche le persone più forti e acculturate stanno cedendo. Perchè di fatto si tratta di una detenzione senza colpe in cui non si sa nemmeno il termine della pena, perché il processo di pre-registrazione ed eventuale ricollocamento in altri Paesi europei è lento e complesso.
Stiamo marginalizzando e costingendo al degrado persone che desiderano solo una vita normale e un futuro per i propri figli, cui viene negata l’istruzione e il contatto con i propri coetanei. Stiamo rendendo passivi giovani che dovrebbero essere pieni di energie e costruire una società migliore. Il tutto in un contesto, quello greco, che vive una crisi economica e societaria che non lascia spazio a nessuno.
Ma non c’è più Idomeni a ricordarcelo. Ci sono le minacce di Erdogan, cui non stiamo dando troppo peso.
Gli operatori delle associazioni nei Balcani dicono che è solo questione di tempo, prima che la rotta si riapra. Solo allora, forse, ci ricorderemo ancora di questo pezzo di umanità”.
Silvia Maraone