“Gota go home” è uno degli slogan più sentiti per le strade in Sri Lanka. Lo gridano i manifestanti che da settimane si radunano sul lungo mare di Galle Face a Colombo, che ora è stato rinominato Gota Go Gama, ovvero “villaggio Gota Go”. Gota è il soprannome con cui viene chiamato il presidente del Paese. Sta per Gotabaya Rajapaksa, eletto nel 2019, fratello minore di Mahinda Rajapaksa, che è stato a sua volta presidente dal 2005 al 2015 e primo ministro dal 2019 e che, ieri, si è dimesso dalla carica, dopo settimane di proteste.
Lo Sri Lanka sta vivendo la peggiore crisi economica dall’indipendenza. Le cause sono diverse: la pandemia, l’aumento dei prezzi di energia e materie prime e ora, come conseguenza della guerra in Ucraina, anche l’interruzione delle catene di approvvigionamento. Come spesso accade, la crisi è peggiorata a causa della classe politica che da più di 10 anni è – appunto – guidata dalla potentissima famiglia Rajapaksa, accusata a più riprese di corruzione e nepotismo.
La crisi cingalese non è arrivata all’improvviso, ma si è costruita nel tempo e ora è esplosa. Negli ultimi 10 anni il governo ha chiesto e ottenuto grandi prestiti da creditori stranieri, soprattutto Cina e Giappone. Ora – anche a causa di una concomitanza di eventi che ha colpito il paese, dallo tsunami alla pandemia – il governo non è più in grado di ripagare i suoi debiti e a metà aprile ha dichiarato il default. A questo si aggiunge il crollo del turismo, l’irrazionale taglio delle tasse sui più ricchi messo in moto dal presidente e una legge sull’agricoltura, voluta nel 2021 sempre dal presidente che, durante la pandemia, per cercare di limitare il prosciugamento delle riserve di valuta straniera, ha vietato ogni importazione di fertilizzanti.
Una riforma che ha provocato un crollo della produzione agricola (su cui lo Sri Lanka ha sempre puntato molto) e una conseguente necessità di aumentare le importazioni, prosciugando quindi le riserve di moneta straniera. A questo punto il danno era già stato fatto e da qui, al non avere i soldi per importare i beni più essenziali come cibo, medicinali e petrolio, il passo è stato molto breve.
Ora la rabbia delle persone è esplosa, e le proteste, negli ultimi giorni, si sono radicalizzate. Questa notte, nonostante il coprifuoco introdotto su tutto il territorio nazionale, alcuni manifestanti hanno dato fuoco alle case di vari politici e ministri nella capitale Colombo, oltre alla residenza storica della famiglia Rajapaksa nel sud del paese. Questa mattina all’alba, l’ex premier – che si era dimesso ieri nel tentativo di placare la rabbia – è stato trasferito dall’esercito in un luogo segreto per proteggerlo dopo che centinaia di manifestanti avevano assaltato la sua residenza ufficiale a Colombo, tentando di dare fuoco all’edificio principale, dove l’ex primo ministro si trovava con la propria famiglia e alcuni consiglieri politici.
I sostenitori della famiglia Rajapaksa hanno attaccato i manifestanti nel campo dove riposavano, dando vita ad una spirale di violenze che è continuata per tutta la notte e che si è conclusa con almeno 5 morti e 200 feriti. In risposta, migliaia di soldati e agenti di polizia sono stati dispiegati in Sri Lanka per far rispettare il coprifuoco e il Ministro alla Difesa ha emanato un’ordinanza che autorizza tutti gli agenti a sparare a vista contro chiunque venga scoperto a danneggiare proprietà pubbliche.
Le dimissioni del primo ministro, però, non vanno prese alla leggera. Sono, di fatto, un primo passo, una prima vittoria dei manifestanti che stanno chiedendo di ribaltare l’intero sistema politico del paese. E come è successo per altre proteste degli ultimi anni – dal Libano al Cile – le manifestazioni non hanno un leader politico né un’organizzazione ben definita. Le proteste sono nate e sostenute dal basso, dalla popolazione stessa. Al Gota Go Village manifestano insieme Cristiani e Buddisti, uomini e donne, anziani e giovani, che sono preoccupati per il loro futuro in Sri Lanka.
Il movimento, però, se vuol riuscire a portare un vero cambiamento, deve innanzitutto avere un piano, un programma. E la storia recente insegna che non può avere un successo reale e duraturo se non si organizza anche per avere una rappresentanza politica, anche perché il movimento avrà bisogno di fondi per poter continuare.
Per il momento lo Sri Lanka continua a gridare il proprio malcontento, e si riscopre più unito di quanto non lo sia mai stato prima.