Appunti sulla mondialità

Gli oligarchi della West Coast

I populisti della West Coast statunitense, quelli come Musk, Zuckerberg, Bezos e Gates, possono essere anche definiti oligarchi a stelle e strisce. Come i loro “colleghi” russi, infatti, dispongono di un enorme potere di ricatto nei confronti della politica, accumulano fortune inimmaginabili, non pagano le tasse (anche se in modo legale) e desertificano i loro habitat: nei paradisi del miracolo digitale, il folle aumento dei prezzi immobiliari e del costo della vita espelle i ceti medi e soprattutto i poveri, impossibilitati a vivere. Non a caso la California, che ha il 12% della popolazione degli Stati Uniti, ospita (si fa per dire) il 50% dei senzatetto di tutto il Paese, con i picchi di Los Angeles e San Francisco, che contano da sole 70.000 homeless: luoghi che presentano un contrasto sociale stridente, tipicamente “americano”, ma che siamo abituati a localizzare nella parte sud del continente.

A differenza dei colleghi russi, gli oligarchi digitali hanno anche la pretesa di cambiarci la vita. Il marketing racconta che da loro non ti devi aspettare un semplice prodotto, ma servizi che rendono la vita migliore e il mondo un luogo più vivibile. Ostentano una sensibilità che poco si addice a multinazionali che da anni evitano di pagare le tasse nei Paesi in cui operano e accumulano miliardi di dollari nei paradisi fiscali caraibici: usufruendo, in sostanza, degli stessi benefici che banche senza occhi né legge offrono agli oligarchi di tutto il mondo, anche a quelli che trafficano armi o droga.

La loro vera natura si palesa con iniziative come quella del gigante Apple, che promette 2,5 miliardi di dollari per un piano di edilizia popolare in California: il diritto alla casa, che ai più è stato negato dalla folle corsa al rialzo del mercato immobiliare, ora dovrebbe essere affidato alle donazioni caritatevoli delle stesse aziende che, di quel diritto, hanno determinato la scomparsa. È il vecchio leitmotiv del capitalismo compassionevole, quello che cancella il principio della giustizia sociale, incentrato sulla ridistribuzione delle tasse pagate da chi più possiede, sostituendolo con le elargizioni benevole, ovviamente sulla base dei gusti e dei bisogni di immagine del donatore. Si tratta di un approccio alla società che laddove si è affermato, ad esempio negli Stati Uniti, non ha mai prodotto uguaglianza, bensì un aumento dei divari tra i cittadini.

Allargando il campo visivo, si tratta dello stesso criterio che solitamente viene applicato quando si tratta di definire l’approccio della cooperazione internazionale verso i Paesi poveri. Non si discute della ridefinizione delle regole del commercio, di investimenti produttivi o di corretta valorizzazione delle materie prime, ma si regalano soldi per costruire qualche ospedale e qualche scuola. E gli utopici obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite, anziché avvicinarsi, si allontanano ancor di più.

Alla fine, anche questo è un modo per non affrontare i nodi critici tuttora irrisolti e per non stabilire vere relazioni di partenariato e solidarietà: sia all’interno della società di un singolo Paese, come accade negli Stati Uniti, sia nel condominio-mondo. Le priorità sono sempre altre: in pandemia, garantire vaccini in sovrabbondanza a chi può permetterselo, in guerra far crescere la spesa globale in armi, rimandando sempre a tempi migliori la transizione energetica. Oggi assistiamo al rinvigorirsi dell’uso del carbone per produrre energia, anche se sono arcinote le conseguenze sui cambiamenti climatici, che andranno a colpire soprattutto la sicurezza alimentare dei Paesi più deboli.

Quello degli oligarchi della West Coast non è affatto un mondo reso migliore dalla rivoluzione digitale, e le gravi fratture che esso contribuisce a creare nel tessuto sociale e globale non si curano certo con la beneficenza. Eppure le contraddizioni di questo mondo si possono cogliere, e solo parzialmente, soltanto nei rari momenti in cui si dirada la nuvola tossica dell’informazione orientata al business e della propaganda di Stato. Giusto per qualche giorno: poi inizia una nuova emergenza, che ancora una volta legittimerà l’esistente.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Non è un piano industriale, è un piano di abbandono. Ne sono convinti i sindacati confederali dei metalmeccanici di Varese. Oggi erano in sciopero e in corteo a Cassinetta di Biandronno, nel varesotto, contro i licenziamenti annunciati da Beko Europe per i dipendenti della ex Whirlpool. Due linee produttive del reparto frigoriferi chiuderanno entro il 2025, almeno 540 posti di lavoro sono stati definiti dall’azienda in esubero, in un piano complessivo di 1900 licenziamenti a livello nazionale. Una delle fabbriche più grandi di tutta la Lombardia rischia così di scomparire con un impatto pesantissimo per l’economia locale. Giovanni Cartosio è segretario generale della Fiom Cgil di Varese.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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