All’origine di tutto c’è un a canzone. Si intitola “Strange fruit” e si riferisce ai neri appesi agli alberi e linciati: sono loro gli strani frutti spuntati sui rami, vittime di una pratica molto comune nell’America degli anni ’50. E’ l’epoca in cui Billie Holiday diventò un’icona della musica, ma nello stesso tempo anche il capro espiatorio della battaglia contro la droga intrapresa dal Governo Federale. In quegli anni, la droga diventava il primo espediente per una discriminazione razzista, l’alibi perfetto per arrestare quei neri che avevano raggiunto una certa popolarità.
Il caso della Lady in Satin è raccontato in chiave melò nel film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” da Lee Daniels, già noto per il film “The Butler-Un maggiordomo alla Casa Bianca”, dove il maggiordomo afroamericano Cecil Gaines, interpretato da Forest Whitaker ripercorreva i suoi anni al servizio di sette Presidenti, da Eisenhower a Reagan. Il libro di riferimento del Premio Pulitzer Susan-Lori Parks si occupa del caso della cantante senza tralasciare gli aspetti politici della vicenda, che il regista utilizza come trama nascosta per sottolineare le ingiustizie subite dalla donna durante il suo percorso artistico. L’attrice Andra Day, anche lei cantante, si immedesima nella jazz singer usando la propria voce, un bel po’ più ruvida di quella originale, per tutte le canzoni interpretate dal vivo nel film. Alterna momenti di perfezione e di eleganza sul palco a scene di devastazione fisica e psicologica per l’uso delle droghe, che uccisero la Holiday a quarantaquattro anni.
La sfida più grande è stata quella di ricostruire l’esibizione di Billie Holiday alla Carnegie Hall, quando finalmente riuscì a cantare in pubblico “Strange fruits”; appena uscita di prigione e ancora con la determinazione e il coraggio di cantare la canzone bandita dal Governo, quella che parlava del terrore razziale in America e metteva in imbarazzo l’estabilishment. Canzone che ancora oggi è utilizzata come un simbolo dai Movimenti per i diritti civili.